giovedì 20 dicembre 2007

Antigone, sangue vergine

"Per molti è un vantaggio l'irrequieta speranza, ma per molti è illusione di labili sogni: nell'uomo s'insinua, che nulla intuisce prima che il piede si bruci nel fuoco candente".
Così geme il Coro dell'Antigone che martedì, a teatro, ha scandito con lenta cadenza la tragedia dei Labdacidi. E io mi sono rapidamente lasciata precipitare nello sfondo nero, attorcigliata in ruvidi pepli e a tratti abbagliata dalle fredde luci secche, monotone. Suonava un suono lento, lugubre, che accompagnava i piedi scalzi dei personaggi con un sottofondo di leggero fruscio. Alessandro accanto a me riusciva a farmi ridere quando, da dietro, qualcuno russava nei lunghi silenzi. Soffocavo le risate nel suo braccio largo, poi ritornavo con gli occhi al palco, e Antigone convulsamente proclamava: "Io sono fatta per condividere l'amore, non l'odio". L'ansia in quella sua voce subito mi quietava, fermando le risate. Un misto affascinante, risate e tragedia.
I caratteri tagliati con l'accetta sono la costante delle tragedie: se si eccettua Creonte - che troppo tardi riesce a capire, ma non ad arginare il corso ormai ferale del destino - i personaggi sono lì, monolitici, fermi, imprigionati. Per me, che nelle settimane scorse l'irrequieta speranza era il tema dominante delle mie ore di svago, i labili sogni sono troppo presto diventati illusione, e il destino oggi mi insegna ad avere sogni più misurati. Tutta la realtà che ho vissuto è stata buona come cibo letterario, ma ha nutrito poco. Ora ho un altro sogno, di "sangue e carne", come ha detto Alessandro.
Le sue mani nei capelli, quelle di Alessandro, strappano un sì con un movimento opposto e simmetrico a quelle di Ismene che trattiene l'irrequieta testa della sorella. Antigone fugge verso la sua morte eroica, virginale letto che condivide col suo promesso sposo Emone, suicida per coerenza ed impotenza. Creonte grida, agitando le braccia. Ma lui, povero spaventapasseri ormai annichilito dalle sventure, nulla può fare contro questo gran fiume di sangue che gli scorre tutt'attorno. E' come la vita, quel sangue. Scorre e s'insinua dove non sai, dove a volte nemmeno vorresti, e indica la direzione - quella giusta in cui guardare.
Senza passione ma per puntiglio, nei miei post di qualche tempo fa mi ostinavo a raccontare di qualcosa che non c'era: certo ci sono stati baci, carezze, sguardi. Scambi di sensazioni e immagini. Mani che si toccano e labbra. C'è stato un fantasticare che mi ha portato in direzione ostinata e contraria, direbbe De André. Contraria alla direzione indicata dal sangue e dalla carne di cui parlava Alessandro martedì. Anch'io, come gli eroi delle tragedie greche, ho peccato di ybris. La mia superbia è stata quella di voler vivere una vita a immagine della fantasia; una vita poetica, una vita che è racconto, post, un frammento di statua o quadro o sogno. Ho messo i bastoni tra le ruote a ciò che naturalmente doveva essere.
E' faticoso vivere volendo fare della vita una "bella copia", un tema riuscito senza cancellature, esitazioni o errori. Senza ripensamenti. E' come voler pitturare senza sporcarsi le mani, o la punta del naso. Forse è possibile, ma troppa energia si perde nel gesto perfetto, nell'ansia della precisione, nell'esaltazione maniacale del controllo. La direzione indicata dal sangue vergine di Antigone è la via del più spontaneo flusso vitale, dell'abbandono agli dèi, dell'accettazione. E della serena accoglienza.
V

lunedì 17 dicembre 2007

Luccio, una rosa al giorno

Ogni domenica, per anni, Piera e Luccio (in realtà Carlo, divenuto Carluccio da cui Luccio) sono venuti a casa nostra per passare il pomeriggio insieme. Io ero in quell'età di mezzo che mi faceva odiare la mia pelle: portavo spessi occhiali da vista, l'apparecchio per i denti e mi sentivo un mostro. Probabile che lo fossi, anche (ma non ditelo a mia madre). Luccio era un bell'uomo, più affascinante che bello, alto, il naso curvo e appuntito, la parlata milanese e i lunghi capelli brizzolati. In inverno portava un trench in pelle nera, sciarpa bianca e jeans scuri da ragazzino: avresti detto, a occhio, che aveva un harem di amanti attorno a sé. Avresti detto che la sua vita era eccitante e smodata, che il mestiere di architetto gli calzava come un guanto, e che - agli occhi di un'adolescente in crisi - Luccio fosse il simbolo di tutto ciò che è grande, di ciò che è al di là della staccionata.
In realtà, di amanti non ne aveva mai più di una per volta (storie solitamente lunghissime, una sorta di ostentata bigamia), il lavoro stava iniziando a scarseggiare, e beveva. Forte. Una bottiglia di whisky in un pomeriggio, per intenderci. Quando se ne andavano, vedevo gli sguardi tra i miei genitori: erano sguardi di ansia, e una ruga verticale gli attraversava la fronte. Chi se ne frega del whisky, diceva la ruga (gliene compravano ogni settimana uno nuovo, di lusso, e solo per lui). Luccio è l'amico della maturità, Luccio e Piera sono la coppia delle crociere, del progetto della casa nuova, dei battesimi, delle telefonate di notte, delle feste patronali di paese, delle scampagnate. Ma Luccio si secca una bottiglia in un pomeriggio, e poi se ne tornano a casa. Un bacio al mostriciattolo occhialuto di casa, e si mettono in macchina. Quanto potrà andare avanti, in questo modo?
Ogni domenica Luccio si sedeva al tavolo quadrato del tinello (questa casa l'hanno progettata loro, questi archi del salone, le scale sospese e curve, il marmo ovunque e la commistione di stili), col bicchiere e la bottiglia davanti, e mentre mamma e Piera parlavano di lavoro, di come procedeva la ristrutturazione dell'albergo, delle figlie e dei vecchi di famiglia, Luccio mi parlava di Tagore, mi citava versi e poesie scrollando i suoi lunghi capelli, mi metteva una mano sul braccio e mi diceva: "Prometti che lo leggerai!", e io promettevo. D'altra parte la maggior parte dei libri che leggevo me li regalavano loro, a botte di venti, trenta per volta. Erano ricchi, e terribilmente infelici.
Mia madre ha sempre detto che Piera e Luccio, sulla carta, erano perfetti insieme: entrambi architetti, estrosi e anticonvenzionali, belli, innamorati e pieni di idee. Erano loro, erano "la" coppia, che mai avrei potuto pensarli scissi. Eppure, continua mia madre, mai ha visto una coppia peggio assortita di loro: hanno passato la vita a farsi lo sgambetto, a mandarsi a cagare, a fare e subire le corna, e poi tornare sui propri passi. Si sono scontrati, urlati, amati e perdonati; si sono lanciati oggetti contro e insieme hanno costruito palazzi; hanno fatto due figlie, e mai una volta che si siano trovati d'accordo sul come educarle... Si sono ignorati per anni. A tratti, guardarli mi faceva stare male per la violenza e l'ostinata precisione con cui quei due - pur amandosi - si erano rovinati la vita.
Un giorno, dopo l'ennesimo tradimento sbandierato, Piera ha dato fondo a tutta la sua incurante pazienza. Ha sbraitato, ha distrutto i piatti della cucina, poi - l'ha cacciato di casa. Luccio, dopo questo fatto, ha iniziato a venire da noi sempre più spesso: confabulava coi miei, bevendo a sorsi piccoli e vicini. Le ultime volte mi guardava e mi diceva: "Diventi sempre più bella, come quelle là...", e indicava qualche ragazza in televisione. Rideva perché vedeva che arrossivo, e che il complimento mi faceva piacere. Lui, invece, diventava sempre più ascetico, whisky a parte: era appena entrato nella sua fase mistica, gli prestavo i libri di S. Agostino e Pascal, voleva leggere la Summa Theologiae ed ammattiva per la Commedia di Dante. Si era messo in testa che avrebbe di nuovo conquistato la sua Piera, che l'avrebbe nuovamente fatta innamorare di sé, come i primi temi, quando si erano conosciuti al Politecnico di Milano. Le avrebbe fatto recapitare a casa tutti i giorni, ogni giorno che dio avesse mandato in Terra, una rosa rossa con il biglietto "Un uomo che ti ama, sempre"; tutti i santissimi giorni dell'anno. Fino alla morte.
Quattro anni fa, intorno al Natale, Luccio era in macchina che vagava senza meta (infelice, io credo. Senza speranza, senza futuro, e coi sogni ormai a brandelli, lasciati per troppo tempo a macerare nel whisky). Certo, Piera l'aveva perdonato, avevano ripreso ad abitare insieme e lui finalmente aveva detto addio alle amanti. In compenso studiava con ossessiva monotonia i testi sacri, aggiungendo mania a dipendenza. Ogni giorno, puntuale, per Piera arrivava la rosa rossa dal gambo lungo, e per Luccio era come un voto, un rintocco che rammemora, l'ultimo tentativo di sentirsi qualcuno. Finché quella vigilia di Natale un malore, qualcosa, gli aveva fatto perdere il controllo dell'auto, ed era morto prima ancora di schiantarsi contro il muro.
Le rose continuarono ad arrivare per qualche giorno, poi smisero, svanendo come la scia di un motoscafo, come una nuvola, come un'immagine luminosa sulla retina: un'ombra che resta lì, ferma, ancora per un istante, un momento solo, e infine evapora, leggera, lasciando gocce di sudore sulla pelle. O lacrime, forse.
V

mercoledì 12 dicembre 2007

Tra Pessoa e Decollatura

Mi ritrovo in uno stato di carenza assoluta, che neanche le parole possono servire a qualcosa. Eppure scrivo: come una missione, come un disperato. Sono un soldato senza patria e senza uniforme, che lotta contro nessun nemico e nessun falò la sera mi riscalda accanto ad altri uomini. C'è un'escrescenza di pelle, un al di là e un di fuori che mi spaccano il cuore.
Stamattina leggevo Pessoa ad alta voce; tentavo di saggiare la poeticità del portoghese sulla lingua: e questo mi ha dato probabilmente il colpo di grazia. Dopo settimane di seduzione e altrove, il senso è venuto a mancare. Pace all'anima sua. Mi sarei accontentata di raccontare della mia antenata, la Nobildonna Zenaide Trigi Pellegrino, sepolta a Decollatura nella cappella dei Conti Perna. Ci ho provato, ma la storia mi è rimasta agganciata, singhiozzante, tra le dita - e non c'è stato verso di convincerla a venire fuori. Ho provato allora a scrivere di Pessoa, della sua follia, dei suoi eteronimi, del suo straziante angelico poetare. Ma era un'impresa troppo ardua per la mia gola secca. Eppure mi sono sforzata, mi sono fatta violenza. Senza risultato, ed è giusto così.
Oggi è un giorno senza parole, che di parole ne spende più di quanto meriti. E' uno di quei giorni in cui voler dire qualcosa è una necessità ma, come negli incubi, neanche il più disarticolato dei suoni può essere detto. E allora, cautamente, appoggio e aggancio una parola dietro l'altra, e solo alla fine mi renderò conto dell'effetto che fa. Solo alla fine guarderò il quadro d'insieme e dirò: che stronzata!
Perché le parole, quando il silenzio?
Zenaide era una donna bellissima, nobile, e povera, morta di parto nel 1889.
Pessoa era un visionario, un profeta, vaso di pandora dei dolori del mondo: di quelli dicibili e di quelli indicibili.
E io naufrago, lentamente.
V

lunedì 10 dicembre 2007

Ma mère m'a dit (la Notte e il Fascino)

Mia madre, figlia sessantaquattrenne del proibizionismo sessuale, s'è detta preoccupata dei miei rientri all'alba durante il fine settimana. Troppe volte, troppo tardi. O troppo presto, a seconda dalla prospettiva da cui si guarda il giorno: se dalla fine - o dall'inizio. Durante il fine settimana la notte è il mio giorno, trapunto di molti soli; io lo abito con disinvoltura, lo indosso, e nulla mi piace altrettanto che sentirmi avvolta rannicchiata nella notte. Quel buio; quello stop della mente. Sentirmi me stessa senza il dovere di esserlo; nelle mie maschere la mia essenza.
Sabato qualcosa (un'emozione, forse) mi ha preso alla gola, mordendo con avidità. Mi ha gettata a terra. Ho adorato da subito quella sensazione di violenza e forza, quel brutale piegarmi le braccia dietro la schiena e vincermi. Mi ha fatto sentire gli occhi liquidi, e caldi; persi, immersi nel desiderio. Ciò che immagino è irripetibile. Sono lapilli di carenza e fuoco che nelle mie notti tengo troppo moderatamente a freno, ma che deflagrano infine di giorno - nelle parole, purtroppo. Solo nelle parole. Che, di volta in volta, bastano sempre meno, appagano sempre meno e, al pari esatto di un erotomane, pretendono di più, svelano sempre di più, e incalzano. Sono la mia personalissima fonte di dipendenza.
Riflettevo: ciò che rende attraente la Bestia non è, come stupidamente ci vuol far credere l'autore, la dolcezza che infine riesce a suscitare in Belle un sentimento di amore, ma dovrebbe essere proprio la sua forza, la sua rudezza, il potere che deriva dalla sua mostruosa imponenza. In questo c'è del fascino (e d'altra parte nel significato stesso di fascino c'è la notte, il mistero, la malia e l'accerchiamento, il piegarsi della volontà ad un potere oscuro; il fascino è Anatolij Kuragin), non in quella specie di goffo peluche che lancia palle di neve e mangia la zuppa col cucchiaio... patetico.
Due volte la stessa carezza, è vero, non è la stessa cosa. Ma qualcos'altro può esserci al suo posto. Qualcosa di più coinvolgente, e di meno facilmente definibile. Appoggiata alla parete stavo parlando con un'amica, finché lui, all'improvviso ma con decisione, si è quasi lanciato su di me prendendomi la spalla, spingendomi quasi con tutto il corpo contro il mio che, avvicinando tanto i suoi occhi ai miei e le sue labbra, ho sentito le pupille dilatarsi di stupore e bellezza, ho posato la testa al muro in stato di totale inerme abbandono mentre lui mi parlava e mi diceva di raggiungerlo alla consolle dove stava mettendo i dischi. Non importa quello che è successo dopo. L'ho raggiunto, certo. Non subito, non di slancio, ma girandoci intorno, temporeggiando, irretendo. E' stata una danza.
Parlavo di legacci, qualche post fa. Ecco, quei legacci si sono infittiti, tagliano la pelle e penetrano la carne. Sono ormai dentro di me.
E' un errore credere che io ami. Non amo - non ancora, e nemmeno quasi. Ma di notte mi accade sempre più spesso di respirare, assieme alla fredda aria di mare, fascino e buio e stelle e un senso da omphalos, da ombelico del mondo. Mia madre non sa quale sacro sentimento di onnipotenza anima le mie notti, e le sue immagini sono immorali grovigli di azioni impure. Le mie, di immagini, sono ben più oscure, e ben più roventi; ma le consegno talvolta alle parole e, più spesso, al silenzio ermetico della mia testa. Tric trac: le rotelle girano, macinano fantasie, disegnano scenari e mondi e sogni. Null'altro che il fascino più torbido, accompagnato dalla realtà più casta.
... Ma solo in attesa che la realtà riesca - finalmente, ed infine - a cogliermi di soppiatto, ululando e spazzando la mia mia terra con potenza di tormenta, piegando reticenze e vanità, sospingedomi come fa il vento con le anime dantesche del secondo girone dell'Inferno. Insomma, ubriacandomi con una potenza che finora ho solo pensato, ma - mai - vissuto.
V

mercoledì 5 dicembre 2007

L'usabilità e l'anima delle cose

Parlando di usabilità si intende il grado di facilità e di soddisfazione con cui si compie l'interazione tra l'uomo e l'oggetto. Nel blog Bottom-up designers, si mostra ad esempio la scarsa usabilità di un pelapatate, e c'è qualcosa di fascinoso in tutto questo. Ed è l'idea che, delle centinaia di volte che mi sono data della stupida per non aver saputo fare benzina alle pompe automatiche, o per aver distrutto una confezione invece di aprirla, o non aver capito nulla dei labirintici cartelli di un ospedale o di un museo, non ero io ad essere stupida - ma loro (cartelli, confezioni e distributori) ad essere user-unfriendly. In un certo senso... In un certo senso è così.
Eppure c'è qualcosa di umano troppo umano nel modo in cui le cose interagiscono con noi. Per dire: io sono convinta di essere realmente stupida quando mi arrovello un quarto d'ora buono per fare benzina; le guance, ogni volta, mi vanno letteralmente a fuoco. Dalla vergogna. Mi vergogno degli oggetti. Mi vergogno di non capirli. Mi vergogno di non essere abbastanza abile per loro. In fondo, gli oggetti immagino siano come le scope animate dell'Apprendista Stregone: un Topolino volenteroso e solerte, ma soverchiato dalle cose attorno a lui, animate di vita, circondate di mistero, e che vivono - letteralmente: vivono.
Conosco persone che hanno una straordinaria familiarità con il mondo degli oggetti. E' una forma di empatia, la loro, di intimità e di agio nel trattare l'altro da sé come se fosse un'estensione del corpo, una comoda propaggine. Merleau-Ponty disse qualcosa di molto poetico (ma anche di molto concettuale) quando affermò che l'uomo tiene a cerchio attorno a sé tutte le cose; in questo modo le cose diventano un prolungamento dell'uomo, si fanno della sua carne, sono intessute della sua stoffa.
Ma io, per accettare quella carne, ho bisogno quotidianamente del mio farmaco anti-rigetto, e quella stoffa mi fa allergia. Le cose sono cose - e lo dico come si disse Stat rosa pristina nomine, nomina nuda tenemus -, e a volte m'incantano altre m'incatenano. Ma è proprio in questo "incatenarmi" che le cose cessano di essere mere cose, e diventano qualcos'altro: il nemico (quando mi ostacolano o mi fanno avvampare di vergogna), il compagno (quando mi indirizzano verso un piacere) o una scoperta (quando riescono ad essere belle). E allora non sono più cose. Sono la strada dell'anima, la finestra sul mondo che apre all'anima ciò che non è anima.
Chi ha familiarità con le cose, le tratta, appunto, da cose. Esse sono il dato, l'essere scontato che è funzionale all'uomo. Ma chi si fa guardare dalle cose, incastrare incantare incatenare da esse, va oltre la loro semplice presenza, la loro scontata funzionalità, la loro immediata praticità. Proietta l'anima fuori da sé, e abbraccia, emana, comprende. E sono convinta che se le cose non avessero una loro intrinseca problematicità di fondo, non fossero difficili, irrazionali e spesso irritanti, non le guarderemmo nemmeno, non le scaglieremmo per terra in un eccesso di rabbia, non le rivestiremmo di significati, e non diventerebbero per noi quasi animate...
V

lunedì 3 dicembre 2007

Un'altra volta la stessa carezza

I fatti sono evoluti con una rapidità incontrollabile. In una sera ho avuto tutto: l'incontro-evento fulminante, l'idea e la carne, le mani. Non so come sia accaduto, perché non avrei avuto il coraggio di farlo accadere; eppure, mentre c'ero, era solo una naturale estensione, fatta di pelle e respiro, dei miei post. Un frammento di vita più pensata che vissuta. Lui teneva gli occhi chiusi, e il riverbero della luce dei lampioni disegnava curve di stanchezza sul viso. Io lo guardavo, e seguivo con un dito il suo profilo; intanto mi dovevo dire che, sì, davvero ero lì con lui, e che l'aveva voluto lui e che lui era abbandonato tra le mie mani ad occhi chiusi. E che c'ero io, lì. Davvero.
Ma questa è già la fine del racconto. Cominciamo dal principio.
Vedendomi, quella sera, si è avvicinato, mi ha baciato le guance per la prima volta, e si è fermato finalmente accanto a me. Finalmente, per la prima volta, non è passato oltre dopo avermi incrociato; ma si è fermato, stabile, non esattamente di fronte a me, non di fianco ma di tre quarti, il viso rivolto avanti e il corpo a creare una specie di abbraccio immobile. Abbiamo iniziato a chiacchierare e fin dall'inizio è stata come l'apertura di una diga, una valanga di racconti, sensazioni, fatti e ricordi, di confidenze e di sciocchezze. Abbiamo trascorso un'eternità in mezzo al locale a parlare l'uno addosso all'altro, e a sussurrarci nelle orecchie per soverchiare i decibel della musica alta e per stare vicini annusare la sua pelle. Le parole che ci dicevamo erano in realtà un'accattivante rete di pretesti, perché nel giro di poche battute ci siamo ritrovati a dirci come ci saremmo contattati in futuro. Lui la prende alla lontana: "Potresti telefonare in ufficio e lasciare il tuo numero. Quando lavoro faccio filtrare le chiamate, ma se lasci il numero ti richiamo io". Arriccio il naso, non so, forse non mi piace molto l'idea, gli rispondo. Allora lui propone: "Prendi l'elenco del telefono, e cerchi il mio nome..." Rido come se fosse un'idea impraticabile, come se non possedessi alcun elenco telefonico. Ma lui si corregge subito: "E' meglio se prendiamo una scorciatoia", dice infine. "Ti lascio il mio numero di cellulare, così non ci sono filtri", e gli mostro tutta la mia più recitata sorpresa... Mi dice: "Aspetta qui", va in cucina, ritorna poco dopo e mi lascia tra le mani un cartoncino su cui ha scritto il nome e il numero. Mi allontano, e fremo.
C'è qualcosa nell'aria, una nascosta sensualità che sento fluire dalle viscere, che mi pervade e mi eccede. Niente mi sembra impossibile o incredibile, tutto è come deve essere. E' il beethoveniano das muss sein!, il destino che bussa alla porta, una necessità impellente categorica che si fa avanti con martellante ineluttabilità. La sento nella schiena, che lui più e più volte sfiora abbraccia accarezza, come per caso. Tende a chiudermi negli angoli, a bloccarmi la strada, ad allungare un braccio per sbarrare l'uscita: nessuno di questi gesti ha l'aria di essere deciso né di essere finalizzato a me. Sembrano gesti casuali, ed è durante una di queste trappole (lui mi impedisce di scendere dallo sgabello su cui sono, e mi ritrovo incastrata tra lui e il muro) che gli dico: "Un po' di settimane fa ti ho visto alla consolle che mettevi dischi in giacca e cravatta... Avevi una cuffia sull'orecchio, e tenevi la testa piegata sulla spalla. Quella visione mi ha emozionato". E' un punto di non ritorno, le carte sono date.
La mano vincente è quella di un uomo che alle 5 del mattino posa la sua guancia sulla mia accarezzandomi il collo. Tiene gli occhi chiusi, e il riverbero dei lampioni disegna curve di stanchezza. La sua bocca è tirata, taglia una ferita in mezzo al viso, e lo stupore di averlo qui mi fa toccare con dita leggere ogni suo tratto. Lui è immobile, ogni tanto dice una frase breve, e sorride; mi tiene le mani, e non c'è fretta, non c'è nemmeno una domanda e nemmeno una risposta. In questo c'è solo il presente, un attimo lungo ore e lungo carezze che non si danno l'assillo del domani, e nemmeno del dopo. E' difficile da spiegare e pure da capire, ma per me non c'è futuro in quella bellezza che ho bevuto. Come se il presente fosse già passato, questa notte ha realizzato tutte le sue potenzialità. Baciare quelle labbra - morderle, esattamente come avevo sognato di fare - mi ha del tutto appagato, lasciandomi quieta e sfamata. Lui, però, ha gettato un seme di futuro, uno piccolo, e problematico. Mi ha detto: "Scrivimi", e io: "Cosa vuoi che ti scriva?", "Che mi desideri..." Io lo ascolto, guardo i suoi occhi socchiusi e gli domando: "Davvero credi questo?", "Certo. Cos'altro? Tu non sei innamorata di me. Mi vuoi. E io sono qui". "Non vorresti esserci?", "L'ho scelto, ed è una cosa rara. Ma ci stiamo infilando in un casino..." Mi accendo una sigaretta e butto fuori il fumo prima di dire: "Perché? Tu vedi una progettualità in questo 'casino'?", ma non risponde subito. Infine dice: "Sì". Poi, in un momento di inattesa loquacità, aggiunge: "Vorrei portati fuori... Vorrei farti vedere i posti che mi piacciono, dove mi diverto lontano da qui, dove riesco a lasciarmi andare... E tu cosa vuoi?". Niente, sarebbe la risposta. Nient'altro che questo, e ora. Ma mi sembra una cosa inaccettabile da dirsi, una saracinesca abbassata sulle dita di una persona. Do una riposta simmetrica alla sua: "Vederti... ogni tanto", e mi chiudo nel mio silenzio fatto di lunghe boccate di fumo.
La poesia accade. Non è un fiore di serra, coltivato e alimentato a concime; è espressione della creativa fecondità della natura. La poesia ha reso quelle carezze reali lungo l'arco di una notte una rosa spontanea che stupisce per il suo odore caldo di petali maturati al sole. Un'altra volta la stessa carezza sarebbe un'altra cosa. Sarebbe l'appendice prosaica di un sogno nato e vegliato tra le pagine di un libro.
V

sabato 1 dicembre 2007

La tenerezza e la bellezza

Da una settimana, ormai, sono soggiogata dall'inconsapevole dolcezza di due occhi timidi. Se la loro timidezza sia immaginata o reale, non saprei dire. Ma, come nel caso di Carlo, anche questa volta - più che l'evento - ciò che mi scuote è la bellezza di un'idea, tutta concentrata nella bellezza di un corpo: l'idea che si fa carne.
Non mi piace la bellezza negli uomini. Gli uomini davvero belli che ho conosciuto nella mia vita hanno sempre avuto un che di innaturale: sono uomini che, per la maggior parte, guarda sempre in alto, senza degnare di uno sguardo noi poveri esseri umani inferiori al metro e ottanta - e sì che la compagnia è grande. Guardare un simile personaggio è arido e deludente. Benché spesso siano uomini statuari, il paragone con le statue è improprio: la statua infatti sa porsi puramente alla vista emergendo nella sua nascente tridimensionalità, si lascia guardare velando e svelandosi, e creando uno spazio prospettico magico e intenso che lega tutti - spettacolo e spettatori - in un unico evento. Un uomo bello, al contrario, si ritrae alla vista degli altri pur vivendo per essere guardato. Ma il suo lasciarsi guardare è infecondo come il vecchio cimelio dei nonni tenuto chiuso nella vetrinetta del salotto buono, quello che nessuno abita mai. E' triste, appunto.
Questo ragazzo che da una settimana vedo è bello: niente di più che bello, ma anche niente di meno. Di un'altezza strepitosa, magro e spontaneamente elegante di modi, è giovane, è timido, è sensuale.
Ieri sono arrivata al locale, ho posato borsa e cappotto, e lui è passato accanto a me con una pila di bicchieri puliti in mano. Era serio. Bocca carnosa ma non stucchevole. Capelli spettinati, occhi accigliati e naso piccolino, corto. Ne stavo ammirando la perfezione quando lui, vedendomi, si ferma un istante, schiarisce tutto (un'esplosione di denti bianchi, occhi luminosi e una rete di brevissime rughe attorno alla bocca) e si ferma per salutarmi, darmi un bacio sulla guancia, mentre io gli tengo il braccio. E' una consistenza setosa di muscoli e carne, di calore e sangue. Il frammento di pensiero che rimane incastrato nei miei occhi, mentre gli tocco il braccio, mentre lui mi bacia, mentre i bicchieri chi se li ricorda più (e la Carletta commenta: "Era inutile che io gli dicessi anche solo 'ciao'!"), è che questo ragazzo - più giovane di me - non ha capito di possedere una bellezza franca e pulita che emoziona. E' ignaro, perciò la sua bellezza trasuda qualcosa che gli altri non sanno nemmeno di avere: la tenerezza. Non è una tenerezza di bambino o cucciolo (ho conosciuto ragazzi belli che già a 16 anni riuscivano ad essere fastidiosamente vuoti), ma è il disarmante potere che nasce dalla profondità, dalla tridimensionalità, dal mistero - e che non è mero fascino, non si identifica con una camicia nera attillata né in un certo modo di tenere la sigaretta. E' tutto questo, ed è altro che gli gira intorno, dietro, al di là, si intreccia si sovrappone e si incastra come una gemma che sorge dal suo stelo. E' come piega la testa quando parla; è lo sguardo di lato che non osa fissare; è la spontaneità di una timidezza attraente e un poco impacciata.
La tenerezza rende preziosa la sua bellezza.
In un certo senso, lui è rassicurante come un paesaggio di Jane Austen, ma vivifica quell'asessuata atmosfera british con un calore e una sensualità vibranti che lo rendono desiderabile oltre che bello e tenero. Racchiudo tutto il desiderio che lui mi evoca in una sola, ultima immagine: mentre ero in un angolo a parlare con qualche amico, mi volto verso di lui e, tra decine di teste, intravedo, dietro il bancone, il suo collo lasciato scoperto dalla camicia. Una pelle chiara, una linea limpida e netta che crea una curva di piacere fisico, e là - nell'incavo delle clavicole - una piccola collana brilla di luce ammiccante, canto delle sirene che mi ha intrappolato. Un sorriso sfuocato sta ai margini di questa visione, splendida cornice di un quadro d'autore.
V

lunedì 26 novembre 2007

Cuoco e marinaio

Mio nonno è morto tre anni prima che nascessi io. Aveva un bel nome: Enrico, Rick, il Gambetta. Soprannome, quest'ultimo, che anni fa mi salvò da sicura malasorte un giorno a Marsiglia quando, dopo un avventato giro a piedi, mi persi per strada e l'unica cosa che riuscii a ricordare fu, infine, ed era quasi notte, che l'abitazione di un'oscura cugina si trovava in Rue Gambetta (con l'accento sulla a)... Ma comunque, anche se avesse aspettato tre miseri anni prima di morire, Rick non mi avrebbe conosciuto lo stesso: sarei arrivata nel becco della cicogna già grandicella, a 6 anni suonati, e capisco che rimandare un infarto per nove anni non è uno scherzo. Richiede una volontà di ferro (che a Rick di certo non mancava), ma anche un cuore d'acciaio, che Rick si era fottuto a causa delle sigarette, della buona forchetta e di una logorante vita in mare. Però Rick è come se lo avessi conosciuto lo stesso, perché era un tipo in gamba - come del resto il suo soprannome fa sospettare. Diciamo che è l'unico che bacio volentieri sulla foto, il giorno dei morti. D'altra parte era cuoco e marinaio, nato benestante e ribelle, e acuto osservatore del mondo. Pare che facesse degli incredibili castelli di insalata russa ricamati con riccioli di maionese cesellati col sac-à-poche. Il mito gli è fortunatamente sopravvissuto. Tanti miti gli sono sopravvissuti ben oltre le meravigliose ricette che cucinava ogni volta che tornava a casa in licenza - e forse un giorno scriverò seriamente di lui perché ne vale la pena. Credo fosse una rarità per quei tempi: un bambino intelligente e scatenato che non conosceva paura, né degli abissi dell'anima né delle botte del papà. Era una forza della natura, che rivive oggi nelle tozze mani di mia madre.
Ne so troppo poco per descrivere come le sue lunghe assenze e i suoi fastosi ritorni abbiano influenzato la storia della nostra famiglia, e quali ombre abbiano lasciato nel forte carattere delle donne di casa. Ma senz'altro conosco le molte luci di quei ritorni, i doni, le novità che Rick portava dal resto del mondo, il primo dentifricio in tubetto ad esempio, o le scatole di tonno sott'olio e di saponette e la bambola di un metro e dieci d'altezza, che muoveva le gambe se la tenevi per mano... I suoi ritorni erano feste patronali, era l'arcangelo che annunciava l'avvento di Dio, era Babbo Natale ante litteram, anche se magari tornava a Ferragosto. Riempiva tutto il paese con i suoi regali. Erano gli anni del dopoguerra; l'Europa sconfitta sudava sangue per rimettersi in piedi, e in quel paesino di 500 anime scarse - mia madre aveva passato i suoi primi due anni di vita in braccio ai tedeschi - la fame era una realtà che solo la fertilità della terra e il lavoro delle braccia aveva appena appena mitigato. Mia nonna a 50 anni aveva la stessa faccia che ha ora a 96: stesse rughe, stessa energia. Persone d'altri tempi, davvero.
Sessant'anni prima del crollo delle Twin Towers, Rick diceva degli arabi, in un misto di italiano e dialetto, che era meglio "lasciarli stare": non avevano rispetto per le donne, e una mentalità troppo distante dalla nostra; abitavano case dagli interni meravigliosi e dalle brutte facciate, per non suscitare invidia; erano in genere persone dissimulatrici e fanatiche. I cinesi, raccontava invece, si giocavano tutto chiudendosi in sette impenetrabili, sulle navi come altrove (verità scoperta ben prima che mi trasferissi ai confini di China Town e potessi toccar con mano la loro ostile alterità); non li amava, perché riteneva fossero un popolo "nu guai bravu" (non molto bravo). Credo che lui potesse permettersi le generalizzazioni e i giudizi trancianti: nessuno, tanto meno in un asfittico paese di provincia, aveva visto tutto il mondo che aveva visto lui, nessuno aveva conosciuto tanti uomini e in tante situazioni diverse e lingue ed esperienze, religioni, colori di pelle e abitudini. E anche se oggi molti direbbero che non è politicamente corretto un simile atteggiamento di pregiudizio culturale, mi permetto di immaginare quale sarebbe la sua reazione: una scrollata di spalle, uno sbuffo appena accennato e interrotto poi da un colpo di tosse di sigaretta; ma dentro di sé avrebbe provato tutto il bonario e indulgente disprezzo - al tempo stesso contadino e cosmopolita - di chi la cultura la vive viaggiando, e non ai bordi di una scrivania.
Rick è morto un pomeriggio a casa sua, ormai in pensione. Si era addormentato dopo una bella mangiata che anche se il dottore, dopo il primo infarto, gli aveva detto di andarci piano, faceva scintille con quelle pignatte. Era un artista della cucina etnica e, a dispetto delle sue antipatie, pare che il suo pollo al curry fosse una creazione insuperabile. Ne riesco solo a intuire il sapore dolce sulla lingua, rimasto attaccato ai ricordi familiari come un'immagine o un detto...
V

sabato 24 novembre 2007

I fall in love with Jane Austen

Per anni ho lasciato Mansfield Park a fare macchie color ruggine sulle pagine, ostinatamente sistemato tra Camera con vista e Virginia Woolf. Lo ammetto: ero convinta che fosse una noia tremenda. Avevo tentato di leggerne almeno l'inizio, e più di una volta; ma era stata un'esperienza sconfortante: nelle prime due pagine la Austen liquida un'intera generazione famigliare e cita almeno un centinaio di sorelle zii e tenute, ricchi poveri così così, fortunati sfortunati e inetti. Non riuscivo proprio a saltare il fosso di pagina 3. Ora, finite le avventure della mansueta ma determinata Fanny Price, mi ritrovo ogni sera a leggere, quasi centellinare, di Marianne ed Elinor, Anne Eliott e tutti i vari Sir, Lady e poveri cristi che di nome fanno Smith e John e Edward, tantissimi Edward; balsamo delle mie giornate e nido delle mie nottate. Non c'è mal di testa, paura o angoscia - nessuna nostalgia del passato o ansia per il futuro - che possa resistere al potere ipnoticamente lenitivo dell'ampio fraseggio austeniano, quel tutto si tiene, quell'ordine sovratemporale che ha sempre la capacità di placare la mia anima come la ninna nanna di una madre, lasciandomi dentro solo un senso di bellezza, di dover essere. In realtà sono piuttosto incline a farmi consolare, in questo periodo: Nietzsche direbbe che sono un perverso esempio di nichilista, "colui che si lascia consolare", appunto. Oh, al diavolo Nietzsche! Mi piace farmi consolare da Jane Austen. Mi dà un senso di amore per la vita, e di speranza. Che di questi tempi non è poco.
Come dicevo rispondendo ad un post di Wolfghost, ciò che in questi giorni mi agghiaccia è constatare la pericolosità viscida e infettiva della stupidità umana... e quando la sera torno a casa e so che ad aspettarmi c'è qualche Miss algida e di buon senso, casta e pronta ad arrossire per uno sguardo o un sospetto, mi sento in pace con me stessa e con il resto del mondo, forse perché lo lascio fuori dalla porta. Amo Jane Austen perché mi fa paura tutto il resto. Eppure, lei è anche il segreto inconfessabile che alberga il mio cuore: un vezzo talmente old style, una trasgressione talmente fuori moda, che rimane ermeticamente chiusa a doppia mandata nelle ore insonni delle mie notti.
Ragazzi, sarei più sollevata se avessi la ormai modaiola tentazione di sgozzare ogni tanto qualcuno piuttosto che l'ansia compulsiva di rifugiarmi nelle manieristiche pagine della vecchia Jane...
V

martedì 20 novembre 2007

Se la poesia è nel Robot...

Sul sito Ciao Robot ho letto l'inquietante notizia di un tale che è stato premiato per aver ipotizzato che, in un troppo inquietante futuro prossimo, potremo avere rapporti "intimi" coi Robot. Come ho scritto in risposta al post del blog del sito, ormai la tecnologia non strabilia più: siamo abituati - e tristemente indifferenti - alle notizie iperboliche, alle esagerazioni incredibili, ai miracoli della tecnica, alle macchine pensanti (nuova frontiera della res extensa?), ai superpoteri della scienza moderna. Sembra che più nulla riesca a suscitare in noi quella "meraviglia" da cui nacquero il pensiero e la filosofia, quello stupore infantile ma non ingenuo che generò la vita pensante, quella bocca spalancata che fa esclamare di piacere e sorpresa.
Sono amareggiata. Non moralisticamente amareggiata dalle conseguenze che un uso indiscriminato e pazzo della tecnica può avere; sono piuttosto romanticamente amareggiata. A me piace parlare di mani che si toccano, di sguardi più immaginati che vissuti, di storie famigliari ed emozioni notturne. Ma spesso la realtà entra di prepotenza nella vita interiore, si insinua in ogni piega, succhia sogni e rigurgita incubi, e non posso non ascoltarla; non posso tapparmi orecchie e occhi. La realtà esiste, diceva troppo spesso il mio ex (a dimostrare che io vivevo in un iper-spazio fantastico e irreale). E io mi incazzavo a morte, perché la realtà di cui lui parlava non era la realtà di cui io parlavo, e non sono mai riuscita a fargli capire che "la" realtà non esiste, esiste solo la direzione dello sguardo, la posizione del corpo che indirizza la percezione, la forma mentis che ci guida verso una ed una sola interpretazione impedendoci la visuale a tutto tondo...
Eppure, la realtà di cui parlo ora non è la "verità" (di cui troppo inconsapevolmente parlava lui). E' piuttosto la cronaca, l'attualità, il divenire del mondo, la concretezza dell'esistenza. E' l'insieme delle cose che succedono, che si accumulano, che si distruggono, che nascono muoiono e scadono, come un bricco di latte o un terremoto in Colombia. E a queste cose occorre prestare orecchio e occhi, perché troppo pericoloso e troppo irresponsabile sarebbe far finta di niente, tirarsene fuori e lavarsene le mani.
Ma a proposito di mani... che sarebbe accaduto se quel famoso incontro di mani e pelle e dita e calda pressione sui polpastrelli e il palmo fosse avvenuto con un Robot invece che con Carlo?
V

domenica 18 novembre 2007

La regola del "3"

Un amico stamattina mi ha detto: "La fonte dell'ispirazione non può essere seccata nel giro di tre racconti", no. Mi è andata anche peggio. In due stoccate è morto tutto, tutto esaurito, tutto sfibrato, accasciato, appiattito sotto la luce troppo cruda del neon, nella cucina del nostro locale di fiducia: ore quattro del mattino, ennesima sigaretta a bruciare la gola, gruppo sparuto di Affezionati della Chiusura che cazzeggiamo, e lui lì, a poco più di due metri da me: in tutta la sua disincantata bruttezza. Bruttezza appena mitigata da un impercettibile tic agli occhi che lo rende dolcemente più vulnerabile, e tristemente poco poetico... Di poco poetico c'è anche il nulla che ci lega, quell'essere ogni volta vicina ad afferrare qualcosa di inconsistente che non si lascia cogliere, quel trascinarmi sempre più svogliata e sempre meno motivata a cercare segnali, a interpretare segni, a creare simboli. Saul mi dice che un soggetto poetico non può rischiare di diventare reale: ne andrebbe della poesia stessa. Concordo in pieno. Ma l'aspetto deprimente di tutta questa faccenda è che il sogno stesso è diventato sterile, e non solo la realtà. Quell'immagine così potente che giorni fa aveva fatto deragliare un intero pomeriggio, si è polverizzata come le ali di una farfalla notturna, e non nego che mi sento defraudata dall'effimera brevità di questo sogno. Avrei voluto durasse più di qualche ora. Avrei voluto sentirmi vibrante per giorni: in qualche modo avevo preso quel disgelo come una promessa.
Ora in ballo c'è un'altra tacita promessa che sento di avere nei confronti dell'ottimistico illuminismo di Saul, il quale mi diceva appunto che la fonte dell'ispirazione necessita almeno di "3" racconti. Non meno di tre, quindi. E, prometto a mia volta: non di più. A meno che non accada quell'incontro-evento fulminante (come lo chiamò all'università il mio professore di Filosofia morale), ne faccio una questione d'onore il non parlare più di un argomento che non esiste; che è esistito il tempo di un sogno, e solo in quell'attimo ha avuto il suo senso e il suo destino; che per me non avrà altro destino se non lo spazio che si è preso con forza di emozione detonante, ma che non voglio stancamente trascinare per altri fiacchi post. Il tempo di Carlo alla consolle è finito, ed esaurita la fonte della mia blanda ispirazione. A meno, certo, che non accada, inaspettato, l'incontro-evento fulminante...
V

P.S.: La citazione integrale di questa strepitosa frase del prof. Marassi, pronunciata come se niente fosse durante un seminario su Sentieri Interrotti, è: "A volte è più significativo l'incontro-evento fulminante che certi rapporti consueti ed ammorbanti portati avanti nello scioglimento del sé". Il minimo che si possa dire è che fu una lezione memorabile per molti di noi.

sabato 17 novembre 2007

Il mio primo meme, e altre prime volte...

Il mio primo meme, la mia prima foto integrale (prima di diventare bruna, ma questo passa il convento), il mio primo rapporto intimo con i link... Insomma, un post delle "prime volte". Chiaramente mi riallaccio al meme che mi ha girato Samuele Silva e, cercando di rimanere in tema, inizio con lo spaziare un po'.
Innanzi tutto, il meme. Quando ne ho sentito parlare la prima volta - per rimanere in tema -, ho trovato che fosse un nome strano e anche leggermente autistico: un balbettio disarticolato dagli oscuri (almeno per me) risvolti tecnologici. Dopo aver capito grosso modo di che si tratta, ne ho cercato una definizione più precisa, e Wikipedia ne dà una bellissima e a suo modo poetica. Dice in pratica che un meme è una riconoscibile entità di informazione relativa alla cultura umana, replicabile da una mente o da un supporto simbolico di memoria - per esempio un libro - ad un'altra mente o supporto. In termini più specifici, un meme è un'unità auto-propagantesi di evoluzione culturale, analoga a ciò che il gene è per la genetica. Già solo la definizione merita tanto di cappello.
Di conseguenza, accetto con estremo piacere di rispondere all'appello del mio primo meme anche se, ahimè, non potrò essere fedele del tutto alle regole del gioco: nella mia estrema solitudine cibernetica, non conosco tanto intimamente cinque blogger da permettermi di citarli... Se prossimamente potrò riparare a questo net-sgambetto, lo farò senz'altro!
Quindi partiamo!
Chi o che cosa ti ha spinto a creare un blog?
Nessuno in particolare... Quando ho scritto il mio primo post ero fidanzata con un ingegnere (onore alla categoria, ma GIURO: mai più!) che mi aveva consigliato di iniziare a scriverne uno... Ma la nota accidia di cui parlavo uno o due post fa, l'ignoranza in materia e una buona dose di paura dell'abisso, mi avevano frenato. Fino a che un bel giorno mi sono detta: ma sì, proviamo! E come succede quando ci si butta a bagno tutto d'un fiato, è stato meno traumatico del previsto...
Il tuo primo post?
Il mio primo post si intitola, non a caso, La Partenza e come foto ho scelto un vecchio tram di Lisbona, di quelli a cui davvero i bambini e gli adolescenti si attaccano a grappoli per non pagare la corsa, sospesi a mezz'aria su per le ripide salite della città... Per me quella foto, più ancora del post, rappresenta tutta la magia, l'incognita e l'ebbrezza del vero viaggio.
Il post di cui ti vergogni di più?
In realtà un po' tutti. Ma non è proprio vergogna... E' una sorta di pudore, di timidezza. L'altro giorno, parlando con degli amici, dicevo loro che a volte, quando finisce una storia importante, ciò che vorremmo più di ogni altra cosa al mondo è, al tempo stesso, il nostro più grande male: ad esempio, voler continuamente chiamare l'ex, mandargli sms o mail... Lo vogliamo, eppure ci tortura. Allo stesso modo per me avviene con il blog: mi fa male, talvolta, scrivere quello ho dentro perché lo trovo piccolo, inutile e spesso misero; e tuttavia una forza che non voglio in alcun modo limitare o imbrigliare mi spinge a farlo... e sono contenta così.
Il post di cui sei più fiero?
Sicuramente Seta tra le gambe, perché per me ha rappresentato la fine della guerra fredda tra la mia testa e il mio istinto. Scrivendo quel post sono riuscita a mettere nero su bianco l'essenza della mia rinascita. La cosa curiosa è che, scrivendo di quel desiderio così carnale ma anche tanto cerebrale, il desiderio reale non si è mai concretizzato, ed è rimasto in una zona di limbo...
...
MI spiace non poter passare la palla a nessuno, ma sono felice che qualcuno abbia dato a me la possibilità di farlo.
Grazie a Samuele anche per il bel complimento che mi ha fatto nel suo post!
V

venerdì 16 novembre 2007

Radici

C'era una volta una villetta in Illinois, bianca, col patio e un simpatico cagnone americano. Quella è mia nonna, la piccoletta col cappello scuro e in groppa al cane. Quella grande è mia prozia, morta nel 1990 giusti giusti, e nota per aver salutato gli Stati Uniti a 17 anni urlando dal parapetto della nave "Goodbye my country!", unica frase anglofona che per decenni, con fascino di leggenda, ha circolato nella mia famiglia anglofuga. Fino a che, un anno fa, decisi di prendere lezioni e abbattere un generazionale tabù familiare, la nostra personalissima maledizione: la riottosità all'inglese, l'oblio coatto, la pronuncia obbrobriosa...
Forse perché sono figlia spuria della mia famiglia, ma con l'inglese fin dall'inizio me la sono cavata benino; e siccome sono accidiosa a livelli che Dante non riuscì nemmeno a concepire nonostante la sua poderosa capacità immaginativa, dopo un anno ho deciso di mollare tutto e passare al russo per leggere Dostoevskij in lingua originale.
E comunque mia nonna (nata madrelingua anglo-italiana) dell'inglese non ricorda una sola sillaba, e non solo ora che ha 96 anni, ma a memoria d'uomo, una volta tornata in patria, dell'inglese non ha più pronunciato nemmeno una parola, facendo istintivamente tabula rasa del suo passato.
Suo padre in Illinois stava per lasciarci le penne una sera quando, nel saloon che gestiva nella città di Mark, un tizio ubriaco gli piantò una pallottola nel costato - con la quale serenamente morì, vent'anni dopo, nel suo letto a Villa Viani. Pare che il bisnonno prese la decisione di far tornare in Italia moglie e figlie non tanto per la pericolosità della città o per la strizza seguita alla pistolettata (anzi, in merito non si ha alcuna testimonianza, il che permette di concludere che il nonno di mammà fosse un tipo tosto), ma perché la figlia grande, la prozia Zenaide, era quasi in età da marito e - si diceva il brav'uomo - se si sposa in America la famiglia si disperderà per sempre. Al bisnonno l'idea di diventare una famiglia di immigrati qualunque in uno Stato qualunque di un posto qualunque del mondo, per di più oltreoceano, era indigesta. Dopo quasi vent'anni trascorsi a Mark, un bel gruzzoletto messo da parte e due bionde figlie con calze di nylon e parlata inglese (come si illudeva, poveretto!), tornarono tutti a Villa Viani, dove nessuno è una schiena o un volto o una professione ma dove tutti sono "qualcuno". Poi, sistemata la famiglia, tornò negli Stati Uniti a lavorare nel suo saloon per altri sei o sette anni prima di fare il definitivo ritorno a casa.
Purtroppo non ci è dato sapere che abbia combinato in quegli anni, da solo. L'unica leggenda circolante in famiglia è quella di un sant'uomo, "meschinetto" (lacrimoso vezzeggiativo, giammai offesa!), che per garantire benessere ai suoi aveva sacrificato gli ultimi anni della sua vita lontano da casa. Spesso ho sentito mia madre o mia nonna sospirare, con sguardi da Vergini Trafitte, "quanto dev'essere stato difficile per lui!". Ed io, senza nulla voler togliere a quello che di vero c'è in tutta questa faccenda del pendolarismo America-Italia e Ritorno, amo pensare che laggiù il bis-nonno abbia ogni tanto anche fatto bis-boccia: alla sua e anche un po' alla mia; perché mi piace ricordarlo e immaginarlo e dipingerlo e descriverlo come se fosse un grosso e austero ritratto ottocentesco: cupo, rigido nel suo vestito nero da borghese per bene, ricoperto da una patina polverosa e spessa, la bocca tagliata in un ghigno severo, le mani rugose strettamente intrecciate sul davanti e, dietro, una piccola, rossa e lucente codina da diavoletto simpatico e ammiccante spuntare a insaputa dal Resto della Famiglia...
V

mercoledì 14 novembre 2007

In breve (Notturno)

In breve perché è sera, e la sera è per i sogni e non per le parole. La puntina del giradischi ha grattato sopra l'LP, e un piccolo grumo di sporcizia l'ha fatta impennare e ricadere nel punto sbagliato. Allora la notte è scesa, nera come il disco e altrettanto polverosa di stelle, e ha portato con sé paure e angosce e insicurezze, fino a che il sonno spegnerà tutto. Confido che domani.
Confido addirittura nel mio ieri. In quella vorace pretesa di vivere.
V

martedì 13 novembre 2007

Una felicità vibrante

Sono due notti che sogno il mio ultimo fidanzato. Nel sogno di ieri, lo contattavo per dirgli qualche sciocchezza che era solo pretesto. Gli permettevo, ancora una volta, di sbattermi il telefono in faccia e farmi del male. Nel sonno ero talmente incazzata con me stessa, e delusa dalla mia debolezza, che al risveglio ho dovuto andare a correre per smaltire l'adrenalina. Stanotte, invece, era lui a venire da me, nella mia casa di Milano. Andavamo sul terrazzo a parlare, e nel frattempo mi chiamava il suo amico del cuore (l'uomo di cui più sono stata gelosa, in passato, perché aveva da lui tutto ciò che avrei voluto per me stessa: attenzione, tenerezza, costanza e vacanze...), dicendomi di stare tranquilla, che Fabio mi avrebbe finalmente portato a Parigi e che per tutto il tempo della vacanza lui non si sarebbe intromesso tra noi. Ricordo solo di aver riso, e di avergli risposto che a Parigi con Fabio non ci sarei mai andata, che era tardi ormai. Nel sogno, un bell'uovo bianco, piccolo e grazioso, rotolava sul tappeto del mio cervello. Dolce dolce. E piano.
Ormai da qualche giorno sento nel mio corpo una sensazione di vibrante felicità; ogni cosa mi procura un'eccitante scossa a fior di pelle. Léggere, in primo luogo. Scrivere. E poi uscire, fare la doccia, guardarmi allo specchio, immaginarmi in un qualunque futuro... coltivare rapporti e crescere, scoprire piccole rughe, indossare un anello o mettere in ordine. Discutere, anche. Resettare rapporti e rivedere legami. Tutto, la totalità dell'esistere. E non è una felicità sorda, da stomaco pieno; non una sazia placidità. Sono ancora e sempre inquieta, mobile, instabile, insicura, paurosa e fuggente. Ma sono io come è l'aria tra i rami degli alberi millenari. Sto, e al tempo stesso vago. Cullo, e al tempo stesso scappo. Sono io con leggerezza, che è come immagino siano tutte le cose dotate di essere: sono. E questo gli basta.
Ho vissuto per anni in intimità con una castrante paura della competizione, con un'avvilente ansia da prestazione che mi tagliava le gambe. Per anni sono stata col culo per terra, perché alzarlo mi sarebbe costato troppo. Non solo, banalmente, troppo sbattimento, ma anche troppe energie che non avevo - nel frattempo impegnate a costruirmi una sicurezza, un volto, un'identità forte e autonoma. Per anni i miei bisogni emotivi da bambina abbandonata mi hanno risucchiato la vita, il desiderio, la speranza ed il futuro. Per anni ho passato pomeriggi interi sdraiata a letto con il mal di testa, e un'angoscia densa e non risolvibile.
Non dimenticherò mai quei travagliati pomeriggi nella mia stanza di Viale Papiniano, il rumore dei tendoni del mercato la mattina presto il martedì e il sabato, le voci cantilenanti dei commercianti e il silenzio ostinato del mio cuore. Non posso dimenticare la concitata sensazione che la mia vita non avesse un senso compiuto, che non ero all'altezza di viverla, la vita, che un baratro mostruoso stava risucchiando il mio presente. A nessuno ho permesso di avvicinarsi a quel grumo astioso e dolorante di impotenza e infelicità. Odiavo la mia vita, e le relazioni d'amore, che con facilità riuscivo a vivere e portare avanti, erano il mio particolare modo per non restare del tutto sola con me stessa. Ma a quegli uomini, poveretti, non ho mai dato nulla di me stessa se non il mio corpo e, a volte, il mio intollerante brutto carattere. Che pena, la ragazza che ero.
Se in un'immagine dovessi racchiudere quello che mi è rimasto di quegli anni, è il ritratto di un volto con gli occhi sbarrati e la bocca cucita, nessuna bocca, nemmeno labbra. Un volto senza voce e senza respiro. Oggi, invece, c'è un grande sorriso, più grande e più bello del mio reale sorriso, una porta spalancata su denti bianchi e regolari, occhi socchiusi e una girandola di colori e battiti di cuore.
Quegli anni sono stati ammalati, ma fecondi. Il mio sorriso non avrebbe questa qualità non consueta e non banale, se non avessi blindato la mia anima alla vita per tutto quel tempo. Forse è per questo che amo tanto gli scrittori russi: la sconfinata maestosità della grande madre Russia che tutto accoglie e tutto placa nel rigore ineludibile dei suoi inverni eterni; la lentezza non scandibile del tempo che rende immote le acque e gli animi; la saggia pazienza di una lunga gestazione che germina e procrastina. Tutto questo tempo, questa immensità, questa calma apparente hanno creato Guerra e Pace, hanno dato vita a Raskolnikov e a Cicikov, a Ivan Karamazov, figure esemplari e paradigmatiche di tutto ciò che può trovarsi nell'uomo.
Sono innamorata, lo ammetto.
Sono perdutamente innamorata della vita che per anni ho tagliato fuori. E' riduttivo racchiudere gli anni in una parola tanto breve e tanto rapida: anni di non vita hanno significato ore e minuti e attimi tutti uguali a se stessi, tutti con la stessa annichilente ciclicità, mattine in cui svegliarmi era un tormento insopportabile, e il sonno della notte - rimandato fino all'ultimo per non rischiare l'insonnia - momentaneo sollievo. Vuol dire essermi chiesta migliaia di volte se e quando qualcosa sarebbe cambiato, se e quando avrei avuto la forza, la fortuna o il coraggio di.
Ora sono lontana. Sono dentro me stessa. E' un pensiero che mi commuove, che mi meraviglia e che mi spalanca la bocca. Tutto il resto è solo accidente, l'essere è ciò che resta.
V

domenica 11 novembre 2007

Merleau-Ponty e il chiasmo delle mani

Siamo arrivati davanti al nostro solito locale che tirava un vento freddo di mare. La Carletta aveva uno dei suoi tipici vestitini cortissimi e attillati, cintura bassa e giacca di pelle marrone. Era graziosa, come sempre. Come sempre, il suo naso si arriccia quando sorride, e gli occhi azzurri struccati danno un senso di simpatica allegria. Mi stava aspettando per la cena. La Cate, tutta in nero (capelli neri, occhi neri, vestito nero e piumino) ci ha raggiunto mentre aspettavamo le nove e mezza fumando. Giacomino si godeva il suo mozzicone di sigaro toscano lontano dalla sua teutonica fidanzata-robot, e i miei occhi vagavano qua e là, chiaramente indirizzati.
Sì, lo so. Dopo l'immagine eroticamente fulminante di domenica scorsa - Carlo alla consolle che mette dischi con la sua aria da maschiaccio - ho cercato di stordire le mie sensazioni con la definitezza apollinea e rassicurante della forma letteraria. Ho mangiato letteratura per stoppare i languori del mio stomaco esigente, e ho rigurgitato rassicuranti frammenti di cultura. Ma chi voglio prendere in giro. Ieri sera, prima di uscire, sono stata talmente disonesta con me stessa da mettermi addosso le prime due cose che avevo lasciato da giorni a penzolare sulla sedia, non prima, però, di aver provato mezzo guardaroba: abiti, gonne, autoreggenti, trasparenze e tacchi. Poi mi sono sentita ridicola (o insicura), e ho pensato che i sogni è meglio lasciarli ben chiusi a riposare dietro le palpebre, o al limite nelle parole sperse di un blog. Allora mi sono infilata un paio di vecchi jeans, un maglioncino nero girocollo e stilavali. Cappotto, e profumo. Credo che in parte fosse anche un gesto scaramantico: quando avevo conosciuto il mio precedente fidanzato, più di tre anni fa ormai, in agosto, io ero irritata con me stessa perché non avevo avuto voglia di lavarmi i capelli, ancora fatti di salino per la spiaggia del pomeriggio. Ma qui non si tratta né di fidanzati né di capelli: ognuno è, grazie a dio, al proprio posto.
Ceniamo e siamo in dieci al tavolo: si beve champagne, ne mando giù parecchio. Carlo sta mangiando lì vicino, mi dà le spalle. Carletta ogni tanto mi guarda e mi sorride arricciando tutto il naso: è l'unica a cui ho raccontato la mia fantasia. Mentre sono più le cose che lascio nel piatto che quelle che mangio - o al massimo, le divido con Lorenzo - Maurizio mi riprende: "L'altra, lì", e mi indica, "si veste sempre come se dovesse affrontare il gelo polare: accollata fino al mento, chiusa e impacchettata, che non si vede niente". Gesticola, e tutti ridono. Poi mi lancia uno sguardo penetrante e conclude: "Ah! Se io fossi te, vedresti cosa combino in giro!" Affermazione che, tutto sommato, decido di prendere come complimento.
Ogni tanto mi ritrovo a dare un'occhiata alla schiena che, in linea d'aria, si trova ad un metro e mezzo da me. La guardo, Carletta mi guarda, ridiamo, e decido di fare come per l'abbigliamento: una bella alzata di spalle, e poi chi se ne frega.
Il locale si riempie velocemente, e la serata trascorre tutta con noi del gruppo che, a turno, balliamo, salutiamo conoscenti ed ex, teniamo lontani personaggi sgraditi, e percorriamo i dieci metri del locale affollato per uscire a fumare. Attività che ci prendono molte ore in un rilassante niente di niente.
Ogni tanto guardo - quello sguardo indirizzato di cui parlavo all'inizio - e ogni tanto mi lascio guardare.

... E infine, mentre ritornavo da un giro fuori, nel percorrere il breve corridoio mi sono ritrovata faccia a faccia con Carlo. La gente era talmente tanta che non si riusciva ad andare né avanti né indietro. L'unica cosa che ho potuto fare è stata guardarlo, guardarlo dapprima con ironica curiosità (toh, chi si vede...), guardarlo poi con la nuova consapevolezza creata da ore e ore di fantasie e immagini (ecco l'oggetto del mio desiderio...). Ma fantasie e immagini riguardano me sola, sono state in questi giorni la mia ora d'aria, il mio carburante, il mio lusso e la mia trasgressione. Quello sguardo, invece, riguardava noi due. Era relazione.
Ci siamo ritrovati di fronte. Come sempre, senza dirci nessuna parola. L'ho guardato, in quell'immobilità calda fatta di corpi ammassati, l'ho guardato e subito ho pensato che, no, sarebbe stato umiliante continuare a guardarlo se lui avesse fissato lo sguardo in un'altra direzione: che so, dietro di me, di fianco, o anche in aria o per terra. Eppure, istante dopo istante, decidevo di rimanere lì, e scoprivo con fugace meraviglia che anche lui rimaneva lì, piantato in questi miei occhi, fermo, intenso.
Ho pensato che sarebbe stato umiliante se lui non mi avesse guardato; ma mi guardava, e la paura è diventata pudore. Mi sono sentita nuda, e senza volerlo ma volendo nascondermi, ho abbassato lo sguardo e deciso di provare a fare un passo in avanti. Impossibile. Perché nell'attimo in cui ho abbassato gli occhi, lui ha alzato la sua mano all'altezza delle spalle, e io mi sono chiesta, del tutto impreparata, cosa volesse quella mano. Forse un saluto silenzioso, un pat pat amichevole? Improvvisamente spaesata, ho alzato a mia volta la mano, quella sinistra vicino alla sua, e ho provato a fare un gesto di saluto (e pensando al tempo stesso che razza di saluto è tra due persone che se possono si passano a fianco evitando di parlarsi, ma sempre sotto fiuto l'uno dell'altro?).
Alzando a mia volta la mano, lui l'ha presa nella sua. Non l'ha stretta, non l'ha massaggiata, non ha tentato uno di quegli impacciati baciamano degli uomini senza fantasia. L'ha presa, e toccata. L'ha toccata, e accarezzata. E accarezzandomi - abbastanza a lungo da non potermi sbagliare sulle intenzioni di quel tocco - proseguiva il suo sguardo. Ho risposto a quella carezza, e le nostre mani sono diventate il chiasmo dei sentimenti contraddittori, di eleganza e animalità, di desiderio e fuga, silenzio e contatto. Erano mani toccanti e toccate, ma non semplicemente e banalmente perché la sua era toccante (ovvero, il principio del moto e dell'azione) e la mia toccata, soggiogata e agìta; erano mani che si toccavano elevate alla seconda, perché anch'io toccavo lui come lui si lasciava toccare da me. E' stato scambio di liquidi, umori e sesso. E' stato un sesso inaspettato e trasgressivo. Gli ho idealmente mostrato la gola in segno di resa, e mantenuto per il resto della serata il mio silenzio come segno di "altrove", closed, ma forse, al prossimo incrocio...
V

venerdì 9 novembre 2007

La cattedrale dell'anima (L'Idiota)

Sono giorni che mi aggiro nella mia anima con veneranda sacralità. Ho dato un addio e salutato un buongiorno. Mi sento elettrizzata, ma soprattutto ribattezzata.
Fino a poco tempo fa Cioran era il mio mentore, e il mio sogno Pessoa: la cupa dissacrante e onanistica smania iconoclasta del primo arricchita della sontuosa nostalgica malinconia del secondo. (E non parlo di cucina...) E se Tolstoj mi aveva quasi, di contro voglia, catturato per la limpidezza delle immagini e la potenza creativa, Dostoevskij rimaneva il mio gemello di spirito: personaggi travagliati affannati e scapigliati, caratteri in limine, storie tirate allo spasimo come la nota del violino più virtuoso... insomma: spazzavo strade sporche, ma strade belle. Mi aggiravo dentro me stessa come nell'androne di certe vecchie case milanesi che nel periodo del censimento avevo imparato a conoscere così bene: buie, irregolari di scalini e pericolanti di corrimano. Mi piaceva, ma la polvere che respiravo mi soffocava.
In quel periodo - l'inverno 2001 - avevo letto L'Idiota. Non ricordo che un libro mi abbia colpito tanto, né che mi abbia provocato un simile senso di immedesimazione quasi carnale: l'idiota ero io, accidenti! Mi piaceva specchiarmi in quello specchio, guardarmi in quegli occhi da epilettico e saggiare la mia impotente virtù nell'irritante buon cuore di quel principe. Non ero la sua Nastas'ja Filippovna; ero il suo doppio. Ero lui, ma senza il finale tragico. Ero l'ombra che lo avrebbe difeso da se stesso. Un'idea che neanche Don Chisciotte avrebbe mai osato pensare nei suoi vagheggiamenti cavalleschi tra sontuosi sogni e miserrime realtà. Una commozione fino alle lacrime, quel disgraziato spagnolo!
Mettiamola così: ero per Myskin quello che, anni dopo, avrei scoperto in Gogol'. Ero il cappotto rubato dal fantasma di Akàkij Akakièvic: la realtà di un poveraccio morto di freddo, contro la fantasia consolatoria di un fantasma ben pasciuto. Insomma, ero un finale sbagliato al momento sbagliato, e persino dell'autore sbagliato.
Ero un gran casino.
Oggi c'è questa magnifica cattedrale che pulsa, legnosa e odorosa, e vuota, dentro di me. Mi sembra di vederlo, il pulviscolo assolato che penetra dalle vetrate, vetrate bianche, diseguali, appena polverose e forse anche unte dal tempo. Cavalco l'onda di quel raggio di sole, e mi immagino il naso freddo e rosso delle mattine d'inverno, quando andavo all'università e alle 8 mi rintanavo in chiesa per chiedere la grazia di ritrovare una vocazione persa, quella allo studio. Le mattine erano talmente belle, quei giorni... Abitavo all'esterno quello che ora scopro al mio interno: solennità, intimità e speranza. Serietà.
Perché alla fine, dopo anni di consuetudine e frequentazione, mi ritrovo a pensare che Cioran non fosse serio, ma solo severo. Una severità splendida, ma irrancidita dall'abuso. Una straziante desolazione di chiesa diroccata e dimenticata. Ma, come disse qualcuno, Cioran aveva le chiavi per aprirsi le porte del paradiso, e non ha mai voluto usarle. Io mi sento oggi ben salda dentro la mia cattedrale. E' un'impressione, una sensazione; probabile che domani la cattedrale si riveli un miraggio, una diapositiva proiettata sulle pareti della speranza e del rinnovamento.
Ma il bello dell'oggi è che esiste solo oggi, e non chiede nulla. O forse il conto mi arriverà domani, e domani è un punto di fuga che si allontana all'infinito.
V

giovedì 8 novembre 2007

Seta tra le gambe

Ieri stavo scrivendo un articolo di critica comparativa su un oscuro Francescantonio Grimaldi; ero accoccolata sulla grande poltrona del mio studio, portatile bollente sulle gambe incrociate, il manuale di storia della filosofia moderna sul bracciolo sinistro e la Vita di Diogene cinico su quello destro. Era un momento così, di concentrazione, di calma, e di un indecifrabile sorriso in faccia, sorriso di perplessità, suppongo, e di un certo solleticante disinteresse. Me lo sentivo stampato sulle labbra, il sorriso, e la cosa mi divertiva; sì, ero di buon umore nonostante "il" Grimaldi.
Tutt'a un tratto, mi si bloccano le dita, mi si impalla il cervello, e un nodo mi chiude la bocca dello stomaco.
Una visione.
Una stupefacente, invadente, potente visione.
Diogene il Cinico cade, ma c'è da dire che era già instabile. Io, invece, dopo mesi e tanti di silenzio e sordità e cecità e gelo, erutto. Per una sola visione. Per un ricordo, o meglio per un frammento di immagine che, da domenica, mi è rimasto impigliato nella retina, e ha fermentato ora dopo ora dopo notte e sogni e risvegli sempre uguali, fino a riversarsi con frastuono di onda in quel desiderio e in quella voglia che mi hanno assalito, sbaragliandomi, senza mancare il colpo.
Domenica è stata una serata strana, sdoppiata, un po' come il mio mercoledì, ieri: un muro di berlino tra una destra e una sinistra, tra un prima e un dopo, tra il gelo e il disgelo.
Ero con amici in questo minuscolo locale sul mare, caldo e rosso di luci radenti, scuro di parquet e piccola pista da ballo con tavolini di legno lungo le pareti. Bevevo il mio bicchiere di vino, e mi annoiavo passeggiando qua e là in silenzio, raggiungendo gli amici, facendomi riempire il bicchiere, uscendo a fumare (togli il cappotto rimetti il cappotto... senza soluzione di continuità, per ammazzare la noia e dare una meta alle gambe). In realtà stavo anche guardando un ragazzo che mi piaceva pigramente, ma io non ero convinta non ero nella parte. Lui, occhi spaventosamente azzurri e faccia bella, corpo minuto e capelli neri, girava per il locale con altrettanto fateless, e spesso ci trovavamo di fronte di lato di schiena o braccio a braccio, a frugarci fra i tratti del viso.
Ero fuori forma, sì, ma del tutto indifferente no.
Durante una sigaretta in compagnia, appena fuori del locale, vedo che lui s'infila la giacca, guarda due o tre volte attraverso la portavetri, esce e, passandomi al fianco, mi saluta, appena appena, ma sufficiente a farsi sentire. Ruoto su me stessa - il cappotto stretto al collo per ripararmi dal vento che mi butta i capelli negli occhi - e rispondo con una certa baldanza. I miei amici credono che io e lui ci si conosca, e non sanno che quel "Ciao" è frutto di una manciata di sguardi. Sale in moto, e va via.
Non so bene quale reazione tutto questo mi abbia creato; fatto sta che il suo ciao, o la sua fuga, o i suoi occhi, o tutto insieme o forse niente di tutto questo, mi ha fatto buttare l'ennesima sigaretta, togliere con decisione il cappotto e mettermi a ballare con i miei amici sulla piccola pista semibuia e, dopo qualche canzone di rodaggio, lanciarci a ballare sui tavoli, io, la Carletta, Lorenzo e un tizio di cui mi sfugge il nome (come dire: la differenza tra nameless e fateless non è acqua e, a meno che non si tratti del gatto di Holly, un nameless è anche e inevitabilmente un loser).
Il dj viene a bersi un bicchiere con noi; ridiamo. Gli facciamo i complimenti per la bella musica, gli dedichiamo un coro scherzoso (il suo cognome fa rima con qualcosa per cui tutti lo prendono in giro), lo circondiamo in gruppo e cantiamo per lui... ci fa allegramente segno con le mani che siamo un po' alticci, e ci sfugge per andare a fumare regolarmente fuori del locale. Noi sospiriamo, ci riprendiamo dalle risate un po' alcoliche, lancio un'occhiata alla Carletta e ci ritroviamo di nuovo in pista a ballare. Lorenzo si congratula con me per "la svolta" che sono riuscita a dare alla serata. Ce ne compiacciamo in due.
Nel girarmi a parlare con qualcuno che mi stava picchiettando la spalla, inciampo con lo sguardo nella consolle, e al posto del nostro dj c'è il proprietario del locale che mette i dischi in giacca e cravatta, tenendo la cuffia accostata ad un solo orecchio, e ha la testa piegata verso la spalla. Lo conosco ormai da un anno, ci siamo spontaneamente antipatici, ma per qualche ragione l'ho sempre trovato erotico in modo quasi doloroso: non certo bello, basso e magro, occhiali e capelli cortissimi, il suo viso ha un'aria totalmente attraente e scorbutica, al punto che ogni volta sono sempre consapevole di dove si trova, in quale esatto punto del locale, e il mio corpo contro voglia assorbe dal suo una specie di calore, di onda magnetica, di legacci sottili e impalpabili che mi irritano, mi indispettiscono e mi attraggono.
Ecco, questa è l'immagine che ieri, mentre cercavo di cavare sangue da Francescantonio, mi ha immobilizzato le dita, interrotto il respiro e riempito di un insinuante e liscio languore.
Durante il resto del pomeriggio non c'è stato spazio per molto altro che lasciarmi andare a quella fitta di desiderio che, inaspettatamente, mi ha colto in mezzo alle gambe; e l'immagine di Carlo alla consolle mi stringeva i fianchi in maniera talmente prepotente che l'unica fantasia che riuscivo a concedermi era quella di avvicinarmi a quell'uomo che mette dischi, alzargli la testa e mordergli le labbra, non delicatamente, non giocosamente, non astutamente: mordergliele e basta, respirargli addosso, sentire il suo alito, sfiorargli con la mano la cravatta ma non toccarlo, non lasciarmi andare, non lasciarlo andare tenermelo lì, nella nicchia scavata dal muro, tra un angolo e il banco, morderlo, tirargli il labbro e succhiarlo, e il fiato, respirarci addosso, scoprire lì per lì che l'antipatia latente non è che voglia, e il passaggio dall'odio al desiderio è un detonatore potentissimo, morderti, morderti fino a stancarmi dell'idea.
Ma chissà com'è, l'idea non mi stanca mai.
L'ho pensato, immaginato, rivoltato e indagato in ogni prospettiva e modo e luogo e tempo. Stamattina, quando mi sono svegliata, la fantasia non mi bastava più. Mi sono strusciata fra le lenzuola, sono scivolata nel letto come tra le sue braccia sul suo corpo, corpo di seta, corpo caldo e scivoloso come il desiderio, duro e implacabile e martellante. Era un desiderio fatto di occhi azzurri, di cravatte, di disgelo e di mani. C'è tutto, in questo desiderio: ci sono tutti i mesi passati a far decantare il dolore, a elaborare la fine di una storia infelice, a ricostruirmi una nuova identità ed un nuovo volto.
E' un'esplosione, ormai. Una lava che non smette di eruttare.
Non voglio più smettere di scrivere. Non voglio più smettere di immaginare questa fantasia. Voglio portarmi dentro, fra le cosce, tutta la smania che il mio risveglio ha rivelato. L'epifania di una sensualità che vuole essere raccolta e bevuta a piene mani.
V

domenica 4 novembre 2007

Le peggio domeniche

Le peggio domeniche sono come oggi: una giornata splendida nel suo sole autunnale, quei fastidiosi uccelli che fischiettano là fuori, ed io imprigionata qui dentro: in una Rete, un una foto, in una frase di incerta sintassi. E in più, a rosicchiarmi nuovamente le unghie. Il miraggio si allontana. Le frasi si spezzettano in un ritmo breve e asmatico, perché tra un punto e l'altro, una virgola e l'altra, devo avere il tempo di limare, mordere e abbreviare... Il risultato sono belle mani con unghie irriverenti.
Amo un uomo. Quest'uomo mi ama, forse, chissà, ma nemmeno lui lo sa.
Lui è a New York, ora. Mi ha scritto un messaggio quando è partito, gli ho risposto due giorni dopo: non cercarmi più, per me è finito tutto. Sono tre anni che lo amo, e nonostrante sappia che non è per me, che non mi farà felice come mai mi ha fatto felice, so, come so che oggi è una merdosissima domenica, che lo amo. Non è sensibile, non è dolce, non è delicato; è egoista, severo e intellettualmente scorretto. Ma ho iniziato ad amarlo per la chiarezza del suo sorriso, per la mascolinità del suo sguardo, per l'arguzia delle sue battute, per la sua sete di esplorare... e l'amore è rimasto impigliato nella mia anima come una poetica consuetidine. Non c'è stato nulla che lui potesse arrivare a fare o dire che mi spingesse ad azzerare questa consuetudine, a segnare un goal a suo svantaggio. Nel conteggio dei punti, è sempre stato il capocannoniere. Spiacente. Per me. E' un fuoriclasse, lui.
Ma arriva un momento in cui si deve barare. Forse è per questo che mi rosicchio le unghie, oggi. Perché per barare non è sufficiente ingannare gli altri: bisogna saper ingannare soprattutto se stessi. Credere nella manzogna come fosse la verità, e non aver rispetto della verità perché la verità, in fondo, non è che un'intepretazione, una direzione nello sguardo, un sistema filosofico. E il fatto mi innervosisce. Baro quando dico agli altri che sto "abbastanza bene", baro quando spiego a me stessa - con dovizia di ragionamenti e sillogismi - che è finita e perché. Ma non posso barare quando guardo allo specchio il mio dolore e ne riconosco il motivo, la trama. E' in nome di questo dolore che non voglio permettermi il lusso di continuare a sognare una storia senza futuro. Perché lui, come tutti, non cambierà: e quello che fino a ieri mi feriva a morte, continuerebbe ad uccidermi.
Oggi, domenica, lui tornerà da New York. Lo aspetto, ma non aspetto lui. Quando arriverà a Malpensa, ci sarà il mio pensiero a ciondolare nella sala d'aspetto, e ci sarà un benvenuto, un "ciao", un bentornato. Ora sei vicino, ora sei qua. A 300 chilometri di distanza, ma pur sempre qua. Sarò là con un'idea, con un sogno, con un alito di speranza: ma non ci sarò io ad aspettare lui. Non riesco a barare fino al punto da ingannarmi che il pensiero, stasera, non volerà da lui, verso il suo esser-ci, verso il suo respito nuovamente "in patria". Già il mio corpo si alleggerisce al pensiero che tornerà a casa, nel raggio d'azione della mia immaginazione, nel campo magnetico del mio sentimento. Il mio desiderio creerà curve ed ellissi attorno a lui, incresperà i capelli e scompiglierà la giacca; sarà un affetto sorridente, attraverserà Malpensa con gli occhi bassi e una cauta allegria nascosta nelle pighe delle labbra. Ci sarò, e questo basta. Stasera, mentre berrò il mio aperitivo in amicizia e mi guarderò intorno, io, a 300 chilomentri di distanza, gli dedicherò la mia più gioiosa nostalgia.
Domani, per fortuna, è lunedì. Un lunedì che immagino mattutino, terso e determinato. Uscirò di casa, di sicuro ancora assonnata e scontrosa, ma con quella beata sensazione di fresco sulle guance e sulle mani, di pulizia e sonno che cancella. Ci sono tante cose che voglio fare: vivere una vita senza domeniche, vivere una vita senza nostalgie, vivere una vita senza voltarmi indietro.
E per questo non ci sarà più posto per lui, nella mia vita.
Bentornato vuol dire anche: Addio.
V

domenica 9 settembre 2007

Il cuore in coriandoli

Mi sento come queste nuvole grige: squarciata.
Il sole passa qua e là - una promessa di serenità, in fondo - ma è tutto filtrato e scuro e freddo.
Ieri sera Daniele e Lorenzo mi dicevano: "Dovresti scrivere un libro su quest'ultimo anno: raccontare dei tira-e-molla con lo Pseudo, della volta che hai centrato la macchina della polizia, delle bevute, del ventenne che ti corteggiava e dei tipi strani incrociati qua e là, delle Davidoff al mentolo, dei litigi con la Emi, degli aperitivi al Solis e dei boschi...", che poi i "boschi" di cui loro solitamente parlano nulla hanno a che fare con la vegetazione, gli animali e l'aria pura. I boschi sono sinonimo di serate incasinate che finiscono in intrallazzi e guazzabugli. Imprese epiche, insomma.
Proposta da loro, l'idea mi è sembrata stuzzicante. Mi fanno ridere e, visto attraverso le loro parole, anche il mio ultimo anno mi solleticava una forma di autoindulgenza ironica e narrativa. Poi ho scrollato le spalle e mi sono chiesta: perché? Cos'ho da raccontare? Cos'ho da dire che non sia già stato detto, e anche meglio di così? Perché la mia vita? E a chi potrebbe interessare, se solo a malapena e ogni tanto insuriosisce me?
Daniele direbbe che in questo periodo ho il cuore come 'sti coriandoli. Io dico che ho il cuore come 'ste nuvole: coperto, plumbeo. Credo che il concetto sia lo stesso.
Ma la verità è che devo decidermi. Come con il blog: sono su questa barca, o non ci sono? Inizio a vivere (e quindi a scrivere) oppure gliela do anglosassonemente su?
Non lo so ancora.
I miei entusiasmi sono fuochi di paglia, e la mia energia è fuocherello di candela: più forte brucia, più in fretta consuma. Le mie parole mi irritano, la mia impotenza pure. Ma è un passaggio obbligato: non posso farne a meno... perché la paura di vivere, e la paura di scrivere, sono due facce della stessa medaglia.
Sono fottuta in una viscida impasse.
"...e in questo seguitare una muraglia che ha in cima cocci aguzzi di bottiglia".
Chi oserebbe aggiungere altro, dopo? Sanguino. Ma non è poetico; è patetico.
V

martedì 13 marzo 2007

Sconforto. E poi rinascita


Dopo aver scritto il mio primo post, mi ha assalito per qualche giorno uno smarrito sconforto, una labirintite cibernetica. Mi era sembrato bello essere finalmente partita per il mio primo viaggio virtuale, ma poi l'infinitezza degli orizzonti possibili mi ha smontato, mi ha dato scacco matto. Mi sarebbe piaciuto, partendo, poter dire a me stessa: ecco la mia meta: è il mare, la Cina, le piramidi o l'Africa Nera. Invece non avevo mete, ma solo spazio infinito, spazio sempre più infinito, che cresce e si moltiplica, e fibrilla e fornica e filia al punto da lasciare senza fiato. Al punto da avermi fatto tacere.
Perché in fondo ho pensato che ognuno di noi (che scrive blog, che partecipa alle community, che chatta o costruisce o visita siti), ognuno di noi, dicevo, è contenente e contenuto al tempo stesso; veicolo e vettore; unità di misura e righello. Surfiamo la rete, e siamo l'onda che la crea. E se è vero che è un pensiero che fa paura, è pur vero che non tutto ciò che ci fa paura è brutto. Anche la bellezza spaventa. E lo spaventoso sconforto che ho provato fino ad oggi nei confronti dell'inutilità di scrivere un blog, di far sentire la mia voce (così sottile, così inesperta) mi dà ora uno stimolo in più ad avere il coraggio di tirarla fuori, questa voce, per nessun altro motivo che per se stessa.
Spero di continuare ad avere questo coraggio. Il coraggio di parlare in un troppo affollato deserto.
V

lunedì 26 febbraio 2007

La Partenza

Ogni volta che sono partita, la mia vita ha fatto un piccolo balzo nervoso - come la puntina dei vecchi giradischi sugli LP impolverati dei genitori. In ogni partenza c'è ogni cosa, e più di tutto c'è la vita che fa cortocircuito. Le valige, ad esempio. Nelle valige mettiamo tutto il superfluo di cui non possiamo fare a meno, gli oggetti più belli accanto a quelli più vecchi; il funzionale e l'elegante, il tacco e l'infradito, il maglioncino di lana e la canotta. Il tanga e l'assorbente, per dire. E sono cose talmente banali sulle quali è probabile non ci soffermiamo mai a pensare; sono il nostro mondo tascabile, il nostro ego fuori da noi stessi, l'anima che si materializza. Mara ad esempio, quando andammo a Praga, portò nella valigia un rotolo srotolato di carta assorbente da cucina. Per l'igiene intima, mi spiegò. Questo credo che renda l'idea.
Con la valigia pronta si parte per gioia, per dimenticare, per festeggiare, per commemorare, per darsi un'altra chance o per darla a qualcun altro. Si parte anche per smettere un attimo di essere se stessi, tirare un sospiro di sollievo dalla quotidianità, dai soliti ruoli, le stesse maschere. Si parte per nascondersi o per svelarsi, forse anche a se stessi. Si parte per amore, per curiosità o per dolore. Si parte perché ci va, e si parte anche se non ci va: perché ci sono momenti in cui partire è l'ultima spiaggia davvero - anche se poi si va in montagna. Si parte per sete di conoscenza, per egoismo, lusso o vizio; ma si parte pure per altruismo, fratellanza e solidarietà. Si parte per omologarsi a "tutti gli altri", e si parte per protestare, rompere gli schemi, chiamarsi fuori. Si parte per seguire una strada, perderne cento, inseguire un sogno o seminare un incubo. In fondo, si parte solo perché la vita è un viaggio che ha destinazione certa. Si parte, quindi, per dimenticare la morte ma, come scrive Enrique J. Poncela, per trovare il senso della vita non c'è niente come morire.
E allora: viaggiamo!
V