venerdì 11 gennaio 2008

Nel paese che odorava di legna bruciata

Quando ero ragazzina passavo i weekend e le vacanze estive in un paesino dell'entroterra ligure, esiguo e soffocante come qualunque paese di ogni parte del mondo. I miei genitori erano nati lì, amandolo come si ama una madre affettuosa. La casa dei nonni materni si incastonava in cima ad una salita vertiginosa, e aveva le inferriate verdi e un terrazzo che guardava sulle morbide colline circostanti. Mi piaceva quella casa, il suo odore di chiuso, i mobili antichi e le finestre del salotto che davano su un palazzo diroccato dall'aria romantica. Un'estate della mia adolescenza quel palazzo era stato affittato da un gruppo di giovani piemontesi: erano grandi, li sentivo ridere al ritorno da una giornata di mare, e dalle finestre li spiavo respirando la loro autonomia, la loro meravigliosa età, gli odori della loro cena. Un ragazzo - che mi piace immaginare bello come il sole e abbronzato e con forti spalle larghe - mi aveva visto sognare appoggiata al davanzale, e mi aveva salutato. Poi mi aveva detto "Aspetta", era sparito all'interno della casa ed era tornato poco dopo ridendo e intonando, sulle note della canzone che aveva appena messo, Rose Rosse. La mia solitudine si era accesa di bagliori, il tormento della mia prigione di adolescente aveva conosciuto una tregua e le sbarre si erano aperte, forzate da un istante di illusorio altrove. Ero stata felice, in quel momento, una sensazione fisica di cuore che si gonfia.
Odiavo quel paese, come lo odio ora. Stavo bocconi sul duro letto matrimoniale di mia nonna e sentivo venire dalla finestra, oltre la zanzariera e le tendine bianche, tutti i cliché della campagna, reali, ossessivi: i grilli in amore, le baruffe dei gatti, il rumore dei trattori là, nei campi, e qualche voce ogni tanto che in dialetto strillava qualcosa, il rintocco delle ore del campanile. E io - riversa a pancia in giù su quel grande letto di legno, la porta della camera che grattava il pavimento - e io fissavo con ostinazione un particolare del lenzuolo, una minima macchia sul muro. Sono stati pomeriggi ed estati lunghe, in cui pensavo che non avrei avuto la forza di aspettare di diventare grande, grande abbastanza da fuggire quel luogo, i suoi odori di erba bagnata e legna che brucia, il sonnacchioso irregolare procedere dei minuti.
L'età è arrivata tutta in un botto, non so nemmeno io come. All'improvviso sono stata grande, e ho potuto dire di no. Ma se oggi, a distanza di anni, scrivo ancora - e penso - a quel senso di estraneità e noia, è perché quell'adolescenza claustrofobica e sofferta mi ha irretito, nel ricordo, con dita di una delicatezza struggente e lontana, che a tratti riappare come eco nelle mie orecchie al suono delle campane e di una canzone, affacciata alla finestra.
V

4 commenti:

baluginando... ha detto...

Ciao, ti ho letta molto volentieri. Ti posso invitare nel mio blog?
http://baluginando.blogspot.com/

guccia ha detto...

La tua descrizione della Liguria è molto più intensa.
Bellissimo questo pezzo.

guccia ha detto...

Ho visto che abbiamo tantissime letture in comune ma, soprattutto, anch'io sono "donna" di mare ;)

My funny Valentine ha detto...

Grazie, Guccia, sei troppo gentile... Non vedo l'ora anch'io di venire a gironzolare un po' sul tuo blog, appena sarò un po' più calma: un'occhiata mi è bastata per innamorarmene!
A presto, allora
V