martedì 6 maggio 2008

Trasloco!

Finalmente il giorno annunciato poco tempo fa è arrivato! La mia nuova casa è pronta, e vi invito a visitarla.
Come tutte le case nuove, ha ancora bisogno di qualche ritocco: abbellimenti, personalizzazioni, orpelli...
Per il momento, sono felice di comunicarvi il nuovo indirizzo della Funny Valentine: www.tremaredamore.it


Grazie a Fabio, per essere stato sempre disponibile. Grazie a Manuel per avermi sopportato. Ma grazie soprattutto ad Andrea per avermi supportato...

"La" Funny Valentine

Importante: siccome qualcuno mi ha già scritto privatamente per dirmi che non riesce a commentare i miei post, faccio presente che qui, a questo indirizzo, non è più possibile commentare alcunché. 
Ormai è attivo l'altro indirizzo, che ho segnalato sopra. Chi vuole, può commentare là. 
Grazie a tutti.

lunedì 5 maggio 2008

Tra gatti, schiene e sensazioni (sognando Hemingway)

Ho sempre avuto un modo tortuoso di pensare: adatto la realtà alle mie supposizioni. Fiuto l'aria, scruto le iridi del mio interlocutore, inseguo impervi sentieri interpretativi e, in un modo o nell'altro, faccio centro. Ho sempre avuto delle vibrisse al posto dell'anima, e sensazioni al posto di giudizi.
Per me, la sensazione è Dio.
Da ragazzina, al ginnasio, la mia prof d'italiano (un'autentica mostruosità travestita da donna), vedendomi annoiata durante la lettura ad alta voce di non so quale pagina di letteratura, mi chiese:
"Che c'è? Non ti piace questa poesia?"
Le risposi: "No. La trovo brutta."
"E da che cosa giudichi che è brutta? Sentiamo..."
"Non saprei dirle", conclusi, "ma quando una cosa è brutta, avverto un disagio lungo la schiena, come un brivido, ma senza freddo." Le vidi una traccia di sorriso sulle labbra: la mia risposta - in un qualche modo che allora non seppi spiegarmi - le era piaciuta. Da quell'ombra di sorriso sono passati quindici anni.
Nel frattempo, e con un certo disappunto, mi sono resa conto che non ci sono più "vibrisse al posto dell'anima" (stronzate adolescenziali!), ma decine di gatti che, incresciosi, mi passeggiano su e giù per la schiena. Vanno, vengono, si arruffano tutti e talvolta si azzuffano anche. Ci si fanno le unghie, i fetenti, sulla mia schiena! ed io abbozzo, ché non posso fare altrimenti.

Nota: la prof sorrise perché, come mi spiegò molto tempo dopo, quei "brividi epidermici" erano lo stesso strumento di giudizio estetico che affliggeva Hemingway. Non ho mai verificato l'esattezza di questa notizia, per paura che i gatti scappino e non si facciano più vivi. A questo, ormai, sono legate le mie aspirazioni letterarie...

V

venerdì 2 maggio 2008

Quello che mi piace

D'IO in persona mi ha chiamata per proseguire un meme di quelli carini, che da un po' di tempo impazza per la blogosfera. Ne ho letti talmente tanti in giro che ho pensato: dai, che alla fine ci piacciono a tutti le stesse cose: c'è chi lo dice meglio di altri, c'è chi ci mette della poesia, chi lo struggimento, chi la battuta che fa sghignazzare. Ma alla fine ci piacciono a tutti le stesse identiche cose. Ci piace vivere momenti di relax, leggere, un amore; ci piace guardare il mare, uno sport e toccare un corpo che ci è caro. A me, come a tutti gli altri.

Adoro il telefono, in tutte le sue forme e manifestazioni. Dall'estetica al suono dello squillo. Del telefono amo i sospiri d'amore che corrono lungo i suoi fili o si perdono lassù nell'etere. Amo i litigi e i silenzi, le comunicazioni di servizio e i messaggini, e la mia perversione si proietta addirittura al piacere con cui mi sottopongo ai temutissimi sondaggi... Ma, per compensare questa iper-esposizione telefonica, spesso mi prendo dei periodi di pausa, di disconnessione dal mondo, in cui davvero non ci sono per nessuno. Nemmeno per chi sbaglia numero.






Mi piace pensare che avrò sempre un'alternativa, nella vita. E che quella alternativa starà dentro a una vecchia valigia logora.







Mi sono sempre piaciuti (e mi piacciono tuttora) i cartoni animati, preferibilmente quelli strappalacrime: se non ci sono orfane derelitte o bambine maltrattate, non sono soddisfatta. Chiaro, ammiro moltissimo le atlete pasticcione, i personaggi pseudo-storici, le bellone fatate... Ma il posto d'onore, nel mio cuore, lo ha il cartone più controverso della storia dei fumetti.



Dell'aperitivo mi piace ogni cosa: il sapore del martini cocktail, la sensazione di imprevedibile preludio di un qualcosa che sarà soltanto accessorio, la facilità illusoria di essere tutti amici e belli e allegri, il clima liberatorio da ultimo giorno di scuola. E quell'emozione calda che scioglie i muscoli contratti.





Amo la strada: percorrerla in macchina, di notte, da sola o in compagnia. Mi piace il colore e l'odore, e il tremolio dell'asfalto d'estate. Mi piace leggere i romanzi che parlano di strada, e le persone che sulla strada sono nate e cresciute. Mi piacciono le rughe che ti dà la strada, e quei calli sotto i piedi per il gran camminare, la stanchezza e il fiato corto di chi la strada l'ha persa e poi trovata, e ancora persa. Non mi piacciono le vie lineari, i percorsi semplici, i tragitti segnati. Ma mi piace tornare sui miei passi e pensare ecco, adesso tutto ha un altro aspetto, e anche la strada.




Del corpo di un uomo mi piace la prosaica compattezza, la presenza senza ombre e senza pudore che sa proiettare quando, nudo, cammina per casa a piedi scalzi.

lunedì 28 aprile 2008

Stupratori della memoria

Ci vogliono far credere che distruggere monumenti commemorativi sia uno scempio gratuito e ingiustificato, un gesto di inaudita barbarie. Ci vogliono far credere che un manipolo di giovani ed ignoranti bestie si aggira là fuori inneggiando il Duce e martellando, profanando, scoperchiando, insozzando e distruggendo - in totale inconsapevolezza.
Ce lo vogliono far credere, ma non è così. Martellare, profanare, scoperchiare, insozzare e distruggere non sono semplicemente le azioni sconsiderate e vigliacche di una gretta minoranza di bastardi.
Martellare, profanare, scoperchiare, insozzare e distruggere, oggi come ieri un monumento alla memoria o un cimitero, non è un gesto esclusivamente vandalico o spregiatore. Non è un'azione inconsapevole, ignorante o barbara. Non è uno scempio gratuito, né tanto meno ingiustificato.
Attentare all’integrità dei monumenti alla memoria - oltre ad essere un gesto di razionale, pianificato odio – significa intaccare e ferire a morte la storia di un popolo nel suo punto più vitale e vulnerabile: l'identità storica e sociale. Profanare la memoria (bene fragile e impaurito che non sappiamo più salvaguardare) significa gettare bombe a mano contro quella barriera che ci argina dagli orrori del passato, definisce gli insegnamenti del presente e ci permette di proiettare tremanti speranze nel futuro. Nel momento in cui questa barriera vacilla - ormai esausta sotto i colpi degli stupratori della memoria - gli orrori del passato rischiano di riversarsi nel presente, e il futuro chiudersi su di noi come un sipario nero ormai fin troppo logoro.
V

sabato 26 aprile 2008

L'antipatia del fuoriclasse (Nadal)

Oggi a Montecarlo, Rafael Nadal ha battuto il russo Davydenko con un imbarazzante 6-3, 6-2. In una giornata grigia e nemmeno troppo calda, l'animalesca potenza del tennista spagnolo ha fatto polpette del rassegnato Davydenko. E' stata una partita penosa (quattro o cinque i punti davvero ben giocati da Davydenko) e molte le prodezze dell'incontenibile spagnolo, baciato da un talento eccezionale, dalla potenza ben indirizzata dal fiuto e persino dalla fortuna, persino dalla rete, che in un paio di occasioni gli ha dato ragione in maniera sfacciata.
Impossibile non ammirare Nadal. E' bello, in un suo modo non misurato e non convenzionale. Ha muscoli che la pelle fatica a trattenere; nelle pause tra un break e l'altro, trema d'impazienza; ad ogni colpo di racchetta grida e ansima perché lui ci fa l'amore, con la terra rossa e la racchetta. Dopo i primi colpi, già sai che vincerà - come sai che il leone non avrà pietà sulla gola scoperta della sua preda. Affonderà i denti, e strapperà la carne. Impossibile non ammirarlo, non desiderare la sua potenza e la sua astuzia, i guizzi delle sue braccia e delle gambe. Dalla sua parte ha tutto: bellezza, bravura e fortuna. Ma non la solidarietà di chi lo guarda e di chi ipnotizza. Suscita venerazione, suscita brama. Ma non simpatia. La simpatia è un sentimento tra pari, e lui è un cacciatore solitario, che se ne sta là - piantato coi piedi nella terra rossa di cui è Re, e da cui esclude tutti (sudditi, nobili, consiglieri), circondandosi solo di ammirati spettatori della sua impareggiabile bravura.
V

mercoledì 23 aprile 2008

Scandalosamente autoreferenziale

Se ognuno di noi - scrive Cioran - confessasse il suo desiderio più segreto, quello che ispira tutti i suoi progetti e tutte le sue azioni, direbbe: "Voglio essere elogiato". Nessuno però vi si lascerà indurre, giacché è meno disonorevole commettere un abominio che proclamare una debolezza così miserevole e umiliante, nata da un sentimento di solitudine e di insicurezza del quale soffrono, con uguale intensità, i reietti e i fortunati.
Arrivata, con oggi, al centesimo post, mi concedo una pausa di scandalosa autoreferenzialità, pubblico una foto che recentemente mi è stata scattata da Samuele Silva e ringrazio di cuore Gian Luca per avermi attribuito il fatidico premio D eci e Lode, scrivendo di me cose bellissime: "Perché mi piace il suo modo di scrivere, perchè ad oggi ogni suo post mi ha arricchito e perchè è una bella persona. Ci sarebbero tanti altri che vorrei nominare, ma la lista sarebbe così lunga che sminuirebbe questo premio e so, inoltre, che chi leggerà il blog di Valentina capirà che se lo merita". Scandalosamente autoreferenziale, quindi.
Per annunciare che, a breve, traslocherò questo blog in un'altra e più personalizzata dimora.
Per tirare le orecchie alle mie blogo-zie Anna e Marina che mi hanno dimenticato, abbandonandomi alla più triste delle solitudini blogosferiche (Marina, nemmeno ti sei accorta che ho tolto la moderazione dei commenti, sciagurata!).
Per ringraziare Enzo Rasi di una piccola speranza che ci ha dato, scrivendo: "... dopo, riapro il cantiere". Ti aspettiamo.
V

lunedì 21 aprile 2008

Stanotte vorrei dormire tra le pagine di un libro

E' semplicemente una serata di pensieri approssimativi. O forse, non è poi così semplice.
Milano oggi mi ha accolto con un piovigginare stizzoso e un carico di notizie - come se dalla vita mi fossi assentata più di un fine settimana qualunque. Come se la vita avesse avuto il tempo di fare tre volte il giro del mondo mentre io ancora mi stavo allacciando le scarpe per uscire. Ed è una sensazione sgradevole, di orizzonti mutati e stagioni impazzite, notti con soli accecanti e giorni più neri del nero. Sono questi i momenti in cui la vita mi fiacca i coglioni con una manata portentosa che soffoca i pensieri, fa scivolare lacrime di rabbia. Presto risucchiate da pori onnivori, da pori cannibali e feroci.
Non ne resta traccia.
Stanotte vorrei aprire un libro e stendermici dentro, per finalmente dormire tra parole di altri, ed altre braccia.
V

venerdì 18 aprile 2008

Su e giù per i ponti di pietra

Capita: si perde la strada.
La musica m'infastidisce, mi infastidiscono le persone: le loro parole i loro silenzi. C'è una corda, nella mia anima, tesa come un ponte di pietra tra una sponda e l'altra, e suono quella corda di pietra con un archetto d'acciaio, un archetto affilato come un bisturi. Non intendo mollare questo ponte d'acciaio e di sangue. Non intendo muovermi di qui - finché non mi sarà passata, finché la rabbia si ritirerà come bava perlescente di lumaca. Consumerò queste pietre coi miei piedi (pelle contro cocci contro cemento scottante, fino all'usura), userò milioni di volte l'aria: bevendo e sputando e assaggiando, piegandola e stropicciandola dentro i miei polmoni, su su fino ai pensieri meno afferrabili. E urlerò, se è il caso, tirerò calci, sarò sgraziata e rozza. Sarò sola con me stessa, a fare del mio corpo violino suonato da un bisturi, carne che suppura e testa che si svuota. Non voglio altro: piedi che si consumano sopra un ponte, piedi liberi.
Passerà, lo so. Ma per ora, ho perso la strada.
V

giovedì 17 aprile 2008

A lezione da Flaiano

Nell'arco di ventanni, tra il 1950 ed il 1970, Ennio Flaiano si appuntò alcuni pensieri attorno alla politica, la fede, Dio e la tivù, la società, gli uomini e le donne, i viaggi e le diverse culture. Pensieri confluiti in una delle sue opere più rappresentative: il Diario degli errori. Flaiano è di una modernità straordinaria (come quando parla, ad esempio, dell'agonia marcescente del Festival di Sanremo o della colpevole superficialità dell'italiano medio, anestetizzato - oggi come ieri - dalla sua razione quotidiana di panem et circenses).
Ma tra tutti i pensieri, ne voglio citare uno che mi piace particolarmente, e che trovo adatto a questo periodo. E' un breve dialogo del 1967 che potremmo intitolare "Viviamo, grazie a Dio, in un'epoca senza fede". Eccolo:

Chi ti ha creato e messo al mondo?
Non lo so.
Non è Dio?
E' possibile. Ma siccome Dio ha creato e messo al mondo anche il ministro Mattarella e il ministro Andreotti, anzi sembra che la loro esistenza gli sia più preziosa e utile della mia, la cosa mi lascia indifferente.
Per quale fine sei stato creato?
Per dire di no.
A cosa vuoi dire no?
A te, principalmente.
Che cosa ti ho fatto?
Mi hai tolto la fede.
V

martedì 15 aprile 2008

Viva l'Italia, l'Italia che resiste

Mi spiace sentire di persone che si tappano la bocca, persone che vogliono fuggire, ritenendo che questo Paese non abbia più nulla da offrire - se non uno stupore sempre più amaro, sempre più impotente.
Chiedetemi se sono felice, e vi risponderò di no. Ma non sono disperata, non mi sento piegata. Ho letto molti post, da ieri sera ad oggi. E ci sono stati due atteggiamenti che più di tutti mi hanno infastidito - e questo senza voler esprimere nessun giudizio sulle sponde politiche da cui provenivano (che è anche la ragione per cui non li linko).
Da un lato, c'è l'atteggiamento di chi dice: fate schifo! E' l'atteggiamento di chi sputa veleno sulla maggioranza dando in escandescenze verbali che, francamente, ho trovato offensive e arroganti. Io non so dove stia la Verità di casa (e dubito anche che abbia un unico domicilio, per intenderci). Ma so di sicuro dove non sta. Non sta nell'offesa violenta dell'altro, del suo giudizio e della sua opinione. Offendere è vigliacco. Offendere è burino. Offendere, e alzare in maniera scomposta la voce, è degradante solo per chi lo fa.
Dall'altro lato, c'è l'atteggiamento di chi dice: me ne voglio andare! Ebbene: fatelo. Se vi è intollerabile questo Paese, se non riuscite più a sentirvi cittadini italiani, se capite che non ci sono margini di miglioramento, di lotta, di discussione, allora andatevene. Ma davvero, concretamente, con armi e bagagli. Non fosse che andarsene è difficile - e allora ci si accoccola nel proprio giardino, come serpentelli ciechi, e si aspetta: che qualcosa cambi. Perché il compromesso è quasi sempre più facile che una rigida coerenza. E passato l'attimo iniziale di cocente delusione, tutto infine torna come prima.
A me non piace quest'Italia che ha votato Berlusconi e la Lega, questo è innegabile. Penso, come ho scritto nel mio precedente post, che sia una vittoria volgare, la vittoria di tutto ciò che per me è non-valore, anti-etica. Ma sono qui e rimango qui, anche con un certo orgoglio, e sicuramente con gli occhi bene aperti. Queste elezioni, per la prima volta nella mia vita, mi hanno insegnato qualcosa di importante: ad esserci, a prendermi delle responsabilità, a credere in un principio che porta il nome di "bene comune". In cui credo. E che voglio, nel mio infinitesimale angolino di mondo e di coscienza, provare a costruire.
V

Viva l'Italia, F. De Gregori

lunedì 14 aprile 2008

Con Berlusconi ha vinto la volgarità


E non c'è nemmeno bisogno di spiegare il perché. Ha vinto la volgarità, la menzogna, l'apparenza e la mancanza di serietà. Il dramma è che hanno perso gli Italiani.
V

domenica 13 aprile 2008

Perché ho cambiato idea

Andrò a votare, come già avevo deciso di fare. Non solo: esprimerò una preferenza, cosa che fino a ieri pensavo non avrei fatto. E adesso questa scelta - che fino a ieri ritenevo impraticabile e avvilente - mi sembra invece l'unica possibile, l'unica davvero morale.
Non sono stata folgorata sulla via di damasco, non ho sofferto di tardivo ed incontenibile innamoramento politico. Non sono stata convinta nottetempo da un video elettorale scovato su youtube né da parole più sagge di altre che, in un modo o nell'altro, mi sono giunte fino alle orecchie. Ho semplicemente riletto una celeberrima poesia di Montale. Tutto è nato da lì: da una negazione, da un verso.


Non domandarci la formula che mondi possa aprirti,
sì qualche storta sillaba e secca come un ramo.
Codesto solo oggi possiamo dirti,
ciò che non siamo, ciò che non vogliamo.

Per la forza di quel 'non', ho deciso chi votare. E perché la pilatesca ignavia di lavarsene le mani - circondati da irraggiungibili ideali di purezza e perfezione - mi è sembrata, infine, la scelta più vile.
V

sabato 12 aprile 2008

Le quattro gonne di Anna Bronski

Io lo so dove sono: sono qui, in questi piedi che danzano e confusa tra mille molecole di una luce abbagliante. E anche se il mio corpo non c'è davvero, chi se ne frega. Io ci sono, in qualche modo - e sono la pazzia di Oskar col suo tamburo di latta, nascosta come il nonno sotto le fitte quattro gonne di una giovane Anna Bronski. Quattro, come i balzi dei miei piedi irrequieti; quattro, come i miei sorrisi.

Primo sorriso.
Ieri sera, guardandolo, non ho trattenuto una carezza. E' stata una carezza non pensata né voluta ma come dire - sbocciata, come un tic. E' nata nelle dita prima ancora che nella testa, e solo poi è diventata: reale.

Secondo sorriso.
Ho ricevuto una mail, stamattina, e la fotografia di un mare accecante e poche parole: "E' bello tornare a capirsi". In quelle parole, la dolcezza di un messaggio inatteso e desiderato - come quelle cose che non sai di desiderare fin quando non le hai tra le mani e pensi com'erano vuote le mie mani, prima.

Terzo sorriso.
A come mi hai afferrato il braccio, martedì sera. Di fronte a Le Trottoir (la testa fitta delle tante sere con Mara, negli anni a bere e fumare e tentare di parlare americano con gli americani, fallendo e ridendo e ballando), mi hai preso il braccio e l'hai stretto, avvicinandomi. Ho nascosto il viso dietro ai capelli, ma ho sorriso.

Quarto sorriso.
"Ricordi cos'hai detto anni fa, al Tenco?", non ricordavo, no. "Parlavamo di tradimenti, e io ti chiedevo se per te anche baciare significa tradire. Tu hai risposto: 'anche solo guardare è tradire'. Ricordi?" E, sì, all'improvviso ricordo. 

V

Mia nonna non portava una sola gonna, portava quattro gonne, una sopra l'altra. Non che portasse una gonna e quattro sottane; ben quattro cosiddette gonne indossava, una gonna portava l'altra, ma lei le portava tutt'e quattro in base a un sistema che ne mutava ogni giorno l'ordine. Quella che ieri era al di sopra, oggi stava subito sotto, e la seconda diventava la terza. Quella che ieri era ancora la terza le stava il giorno dopo vicino alla pelle. La gonna ieri più vicina al corpo faceva chiaramente mostra oggi del proprio motivo, e cioè di nulla affatto: le gonne di mia nonna Anna Bronski prediligevano tutte la stessa tinta, quella delle patate. Sembrava che le donasse.
G. Grass, Il tamburo di latta

giovedì 10 aprile 2008

Sognando il lungosenna

Amo questa fotografia di Cartier-Bresson perché esprime gioia. Gioia, orgoglio, spensieratezza. L'ho scelta perché la amo, e anche perché sto vivendo il mio periodo parigino (abiterò un mese a Parigi, quest'estate, in una mansarda sui tetti di Belleville) e ascolto Brassens, Jacques Brel, ed in particolare questa splendida poetica Amsterdam. Leggo e rileggo la Vargas per addormentarmi la sera (mi faccio prendere per mano da Adamsberg, e camminiamo ventosi sul lungosenna). Ripasso con un amico la grammatica francese, in vista di un suo esame, e riscopro l'asmatico piacere di ricordare, una dopo l'altra, tutte le eccezioni dei suoi verbi.
Questa foto di Cartier-Bresson è miracolosa, tanto più che il bambino ha i piedi tagliati e molto cielo sopra la testa: cielo, muri e persone, uno scorcio di strada, là dietro. E' felice, il bambino-bilancia che esibisce con orgogliosa sicurezza le due bottiglie. E anche io lo sono, a tratti, perché sento qualcosa come una pienezza dell'essere, un bastare a me stessa, una consapevole, dolce anestesia dal mondo. Non sento il mondo, non mi entra in nessuno dei cinque sensi; in compenso mi entra nei polmoni una straordinaria quantità d'aria, di sole e mare, di - quasi - felicità. E' una di quelle sensazioni che si disperdono con - troppa - facilità, ma nel momento in cui arrivano: commuovono per la dolcezza. Vedo trasparenti e lievi molte cose, in questo attimo calmo. E proprio perché so che non durerà a lungo, dico a quest'attimo ciò che disse Faust al suo: "Fermati, sei bello".
V

Pink Martini, Sympatique

mercoledì 9 aprile 2008

La vergogna (perdita della verginità)

Sabato sera dovevo avere un'aria da stupida. Io, con la mia sigaretta rétro fra le dita e il mio ancor più rétro martini cocktail accanto, ascoltavo Lorenzo e non volevo smettere di stupirmi. Nomi, facce e conoscenti: lui me li sciorinava come grani di un rosario e io pensavo non è vero. E, subito dopo: la mia ingenuità è un abisso di incoscienza. Perché scoprivo, oltre la cronaca dei quotidiani, oltre le statistiche, oltre la leggenda, che quel signore simpatico che ogni tanto mi offre da bere era stato dentro per spaccio, quel vecchio amico logorroico santifica ogni weekend pippando, tizio bruno & affascinante è costantemente fatto, e quel tipo che ammiravo per il suo 'bel carattere' si sveglia ogni mattina con una canna in mano e va a dormire su un letto di neve. Scoprivo, mettendo assieme i pezzi e per dio era vero, delle volte in cui mi si diceva "Vale, saliamo un momento a casa di L.", e tutti mi nascondevano il perché, e neppure mi sembrava strano. Quasi come se io fossi gli occhi di fronte a cui tacere, la coscienza chiara e fragile da non perturbare, la bambina stupida che non si deve distogliere dal suo stupore.
Ma sono cose di cui non sta bene parlare, e Lorenzo - coi suoi buoni occhi azzurri da amico - me le dice sussurrando, e mi sembra di notare una sfumatura di affetto in più, nel suo sorriso. C'è chi il sabato notte sballa e chi, come me, viene sverginato. E' il nuovo sabato del villaggio globale. Lorenzo mi osserva un attimo, poi mi accarezza la guancia con un dito. "Sei tenera, tu. Tutta chiusa nel tuo mondo, che rischia alla fine di essere anche un bel mondo". Si trattiene, poi conclude: "Mi piacerebbe essere ancora un suo cittadino". Apolide e sconcertata, da sabato vago tra le pagine di ogni libro per ottundere la vergogna di una verginità così tardiva e colpevole, per nascondervi il mio naso come struzzi nella sabbia ed evitare di guardare gli altri - che so già come li guarderò domani, e da domani in poi: troppe rughe attorno a quello sguardo.
V

sabato 5 aprile 2008

Le emozioni del Rockpoeta

Il Rockpoeta è venuto ad Imperia, ieri, per fare un reading delle sue poesie. Avevo conosciuto Daniele poco prima della Pasqua, ad un evento allegramente autoreferenziale come una BlogBeer. Ieri l'ho rivisto, completo grigio scuro ("La mia divisa da lavoro", mi ha detto sorridendo), e un po' di nervosismo nelle gambe mai ferme. In una storica libreria della città - quella dove ragazzina compravo i libri di testo, quella in cui ho nascosto seppellito le mie prime emozioni letterarie - Daniele "il" Rockpoeta ha iniziato ad interpretare alcune delle sue ultime poesie. Come questa, questa o quest'altra, intima e delicata, che quando la recitava - piano e pudico - quasi mi vergognavo di essere spettatrice di un sentimento così personale, così esclusivo. Ma le poesie di Daniele sono state, soprattutto, poesie di aspra denuncia, scritte su semplici pagine graffate ma - graffiate - sulle pelle come unghiate feroci, ferite strazianti. Ha messo in gioco il suo corpo, esposto i suoi occhi, interpellato ognuno di noi e se stesso per primo; ha vibrato e sussultato e infine placato al suono delle sue parole dei suoi versi, e le sue idee, le sue denunce, hanno saturato l'aria di dolore e bellezza.
V

mercoledì 2 aprile 2008

Il nuovo eroe (Caparezza)

Anche se non ne parlo granché, le prossime elezioni mi girano nella testa come cibo mal digerito. L'interrogativo (e di conseguenza il bivio che mi si prospetta) è questo: seguo il mio istinto che - duro e puro - mi incita a non votare, per non scegliere 'il male minore' (perché non è bello, non è giusto, e nei migliori dei mondi possibili sarebbe una sconfitta e un compromesso - e anche in questo); o abbraccio una posizione più saggia e disillusa e, come suggeriva Montanelli, entro nella cabina elettorale mi tappo il naso e metto una crocetta, quella che farà meno male al cuore? In coscienza, non lo so ancora. Credo che alla fine tutto si giocherà negli istanti in cui sarò in fila per votare, e allora, come in un'ispirazione selvaggia, saprò cosa devo fare. Forse.
In questa fase pre-elettorale vorrei solo che ci fossero delle opzioni, e che non mi dessero tutte il voltastomaco. Vorrei ci fossero campagne elettorali in cui la norma non è un generalizzato ed insulso 'dagli all'untore' in cui tutti indicano quanto l'altro sia brutto e cattivo e noi - tutti! - guardiamo come stolti il dito e non andiamo oltre. Vorrei che l'ormai troppo osannato Beppe Grillo (conterraneo che amo di default) la smettesse di urlare e versare bile su tutti, scandendo parolacce come avemarie di un rosario. Vorrei che al potere ci andasse qualcuno che non ha mai rubato mentito o accettato compromessi: come me, come un sacco di gente onesta che, nella vita, non ruba non mente non vende il culo. Ce n'è di gente così, anche se spesso tendiamo a dimenticarlo. Vorrei che al potere ci andasse chi ha un'idea, chi ha un programma, chi ha negli occhi l'innocenza, chi è coerente e chi, in cuor suo, vuole il bene di molti. Una persona così, un politico così, non avrebbe bisogno di venirmi a dire dire quanto è figo, lui, quanto è sincero ed onesto e si sbatte per tutti noi. Non so voi, ma io non sono ossessionata - ogni santo giorno che dio manda in Terra - dal pensiero di convincere gli altri che sono buona sincera e non voglio inculare nessuno. Semplicemente: vivo, e in un modo che ritengo corretto. Agisco, e come meglio posso. Penso, e non do fiato alle trombe immaginando che tutti, intorno a me, siano degli imbecilli.
Questa gente no. Questa gente non è come noi, sicuramente non è come me, non mi rappresenta, e la mia incazzatura è tanta e pura (e dolorante geme) che mi è inevitabile pensare: non posso votarla, votarla è una sconfitta, una bruttura, un errore. Ma poi chissà, chissà quale volto del mio personalissimo Giano prenderà il sopravvento, quel giorno.
Io amo le storie come questa che racconta Caparezza: storie di straordinaria normalità, di un poetico banale lottare quotidiano, di profondissima umanità spesa strappando alla vita stille di linda onestà. Storie di dignità. Sconosciute, ma non per questo - anonime.
V

domenica 30 marzo 2008

Tipi da (non) aMare. Parte II

Come anticipato martedì scorso, eccoci alla Seconda Parte dei Tipi da (non) aMare, ovvero un viaggio semiserio nell'universo delle verità maschili e degli stupori femminili, intrapreso grazie alle folgoranti osservazioni suggerite dalla nostra Marina.

Prof Marina: Non ci preoccupa che non abbiate la minima idea di come siamo fatte.
Ci preoccupa che non abbiate la minima idea.


La Funny Valentine: Questa è storia recentissima, che sotto sotto mi fa sorridere e godere. Quando Manzoni scrisse, della monaca di Monza, che - sventurata - rispose, è per significare tra le altre cose che la monaca sapeva, lei, che rispondendo avrebbe sceso una china da cui era difficile se non impossibile tornare indietro. Allo stesso modo, quando un mio caro amico, durante un concerto, mi disse "Vedi quello che suona la chitarra? E' B., il ragazzo più stronzo e corteggiato della provincia", il dado era tratto, il destino segnato e l'occhio illanguidito. E' una legge non scritta - di quelle di cui mi piacerebbe teorizzasse la nostra Marina - secondo cui dare del 'bello e maledetto' ad un uomo che fino a ieri si era allegramente ignorato, porta improvvisamente a concupirlo con ogni fibra di sé. E così sia.
In realtà, di B. non riuscivo a capire se fosse bello o meno: troppi capelli, troppo lunghi, tutti in faccia. L'insieme, però, era irresistibilmente selvaggio. E' stato poi il caso a fare il resto, portandoci per due weekend di fila negli stessi posti e con la stessa compagnia, vicini a tavola e compagni di battute (spinte). Complice qualche bicchiere d'allegria, a ballare una sera lui mi si accosta e, afferrandomi con maschia decisione, sbraita: "Non svegliare il cane che... sì... quello lì... insomma, capito, il cane che se ne sta tranquillo!", "Il can che dorme?", suggerisco io. "Esatto, proprio quello", biascica.
Spinta dall'entusiasmo di questa promettente conversazione, lo invito a ballare con me solo. Mi si avviluppa come un'alga, e mi dà ampi saggi del suo irresistibile savoir faire. Mentre la musica incalza e il casino cresce, riesce a spiegarmi che "lo sai, vero, che non sei il mio tipo? E, cioè, è proprio questo che mi manda fuori di testa... Sì, ho avuto una tipa che mi frequentava [ti frequentava? E tu che facevi, nel frattempo, lucidavi in solitario la baionetta?], sai, una psicologa", e mi guarda per vedere se la notizia, sia mai, mi turba. Io fingo turbatamento e lui, tranquillizzato, prosegue: "Be', dai, questa tizia era carina, sì, e anche intelligente, non so se mi spiego. Però era sempre lì con 'sto camice: metti il camice, leva il camice, e il mio primario di qua, i miei pazienti di là..." Grazie a quest'ultima precisazione riesco a capire che 'metti il camice/leva il camice' - che all'inizio avevo inteso come un gioco di ruoli con annesso spogliarello intra muros cliniche - era in realtà una velatissima metafora deontologica. Insomma, il B. si era rotto le palle di essere analizzato dalla giovane psico-crocerossina. Questo potevo capirlo senza sforzo.
Forse quella sera sono stata improvvida: gli ho fatto capire che lo capivo, e bene, e troppo in fretta. Questo, chiaramente, lo ha 'mandato fuori di testa', cosa che si è premurato di ripetermi anche da sobrio il giorno dopo, e quello dopo ancora: per una settimana. Fino alla mia estenuata capitolazione finale.
Accetto un invito serale. Ci incontriamo in un locale stupendo, con piscina illuminata e vista sul mare velato da folti pini. Ammiro sinceramente il luogo, mi faccio condurre ad un tavolo appartato e vedo comparire una bottiglia di champagne e due calici. Sto per ricredermi sui chitarristi capelloni e stronzi. Questo tizio, quanto meno, ha il senso della messa in scena. La conversazione ingrana senza alcuna difficoltà: lui mi parla di sé, in maniera un po' randagia ma accattivante. Io piano piano mi lascio prendere dall'atmosfera, musica bollicine e muscoli, e rabbrividisco solo quando mi acchiappa il pensiero che, caspita, magari con B. mi ci potrei fidanzare sul serio [improvviso mi appare in controluce il volto sfigurato di mia madre che, urlando nefandezze, si fa saltare una coronaria... Mamma, sciò!]. Ma non serve scomodare quell'anima buona della Mia Signora Madre. Ci pensa da solo il bel self-made-chitarrista.
Occhi negli occhi, mano a cercarmi le mani (le mani??), mi sussurra delizie nell'orecchio solleticandomi coi suoi riccioli dannati. Ascolto in deliquio i suoi racconti di ex ragazzo di strada ora redento, accolgo con impareggiabile grazia l'elenco delle sue precedenti conquiste amorose, trasalisco elegantemente di fronte ai suoi coloriti modi di dire che ritraggono con icastica rudezza gli arditi desideri che in lui suscito. Insomma, mi sto già figurando al nostro matrimonio: io, fremente e di bianco vestita, accanto a lui in jeans strappati e occhiali scuri, cicca in bocca e manata sul culo a metà celebrazione (e la visione, che dio abbia pietà di me, mi piace!), quando sento serpeggiare nelle mie trombe di eustachio la seguente frase: "Sarai fiera di uscire con me, cioè, sì, ora che sai che ho fatto il provino per diventare tronista a Uomini e Donne!"
Mia Signora Madre, torna a dormire sonni tranquilli che qui, come direbbe il bel tenebroso, non c'è trippa... sì, cioè, hai capito no?, non c'è trippa per gatti.
V

venerdì 28 marzo 2008

Primavera, tempo di meme

Negli ultimi giorni sono stata pensata e nominata in merito a due meme, di quelli che piacciono a me. Decido di farli entrambi, e di farli insieme.

Il meme della pagina 161 mi è stato passato da Silvio, Contemporary Life, e consiste nel prendere in mano un libro (in teoria, quello che più ci è piaciuto) e riportare la frase più significativa di pagina 161. Ora, di libri che mi sono piaciuti tanto ce ne sono a valanghe; scelgo il primo che ho adocchiato e di cui ho un ricordo splendido: Laclos, Le relazioni pericolose. (Volendo, si potrebbe pensare che la scelta non sia del tutto casuale, ma si riallacci in qualche modo all'acceso dibattito suscitato dal mio ultimo post...).
"Gli uomini si lasciarono andare all'allegria e le donne vi si rassegnarono. Tutti avevano l'odio nel cuore, ma non per questo le parole erano meno tenere; l'allegria risvegliò il desiderio che a sua volta gli conferì un fascino nuovo. Questa incredibile orgia durò fino al mattino e quando si separarono le donne dovettero credersi perdonate, ma gli uomini, che avevano covato il loro risentimento, il giorno dopo ruppero definitivamente; e non contenti di aver abbandonato le loro leggere amanti, completarono la loro vendetta rendendo pubbliche le loro avventure."


Il secondo meme, invece, mi è stato passato dal caro Daniele, Viva el Barça, e consiste nell'elencare cinque canzoni che, in un modo o nell'altro, fanno parte di noi, ci abitano nell'anima. Come giustamente fa notare Dani, non è facile selezionare soltanto cinque canzoni... io ci provo.

Def Leppard, Let's get rocked
Il rock è la musica del liceo, quando traducevo e studiavo greco (con amore) sulle note dei Nirvana, AC/DC, Led Zeppelin... mi facevano correre i neuroni e mi riempivano di energia. Lasciavo il dizionario sulla scrivania, e cominciavo a saltare per la stanza, gridando in un inglese stentato. Credevo che la vita fosse dietro l'angolo, in una chitarra arrabbiata o dolce, in una frase tradotta con facilità. La vita si sarebbe, invece, fatta rincorrere a lungo.



De Gregori, Caterina
E' la canzone di un periodo, quello dei vent'anni, e di un amore: il primo, il più lungo e il più bello. Perché non ti bastano per piangere le lacrime di tutto il mondo, quando la notte scende e ti si gelano le braccia. In questa canzone c'è tutta la leggera bellezza, la ciclotimica esasperazione di un'adolescenza che si attarda in fattezza da donna.



Sakamoto, Marry Christmas Mr. Lawrence
Le sere, ricordo, le sere d'inverno seduta per terra con la schiena appoggiata al termosifone, e un libro sulle ginocchia e il telefono accanto a me, ad aspettare. Sakamoto, per me, è l'attesa. E Roland Barthes, che dell'attesa degli amanti ha descritto ogni ansimo, ogni sospiro, ogni più amara piega.



Gilberto & Jobim, Desafinado
La Bossa Nova è nata a casa di Pietro, che casa poi non era ma un garage pitturato di nero, un lenzuolo a separare il letto dalla cucina - guaranà - e Gilberto cantava sensuale e malinconico, assorbito da ogni poro di quelle pareti scure. La Bossa Nova è stata la passione per il portoghese, l'eterea Lisbona fragile di cielo chiaro e Pessoa che, in lingua originale, mi faceva vibrare bocca lingua e gola in un canto smisurato.



De André, Sidun
E, in ogni sua nota o parola o frase, tutto l'album Creuza de mä, in cui ci sono le mie radici, la mia anima tutta e ogni mia appartenenza. Sidun è una canzone di guerra. Ascoltatela, ci insegna molto sulla vita, la morte e noi stessi. Vi lascio con la traduzione del testo, che è cantato in dialetto genovese.

Il mio bambino il mio, il mio.
Labbra grasse al sole di miele, di miele.
Tumore dolce benigno di tua madre,
spremuto nell'afa umida dell'estate, dell'estate,
e ora grumo di sangue orecchie e denti da latte.
E gli occhi dei soldati cani arrabbiati con la schiuma alla bocca,
cacciatori di agnelli,
a inseguire la gente come selvaggina
finché il sangue selvatico non gli ha spento la voglia.
E dopo il ferro in gola, i ferri della prigione,
e nelle ferite il seme velenoso della deportazione,
perché di nostro dalla pianura al molo
non possa più crescere albero né spiga né figlio.
Ciao bambino mio, l'eredità è nascosta
in questa città che brucia, che brucia nella sera che scende
e in questa grande luce di fuoco,
per la tua piccola morte.

martedì 25 marzo 2008

Tipi da (non) aMare. Parte I

Riemergo solo ora da un impegnativo weekend pasquale: oltre ad avere un libro da scrivere appuntamenti da fissare ricerche da portare avanti, la situazione politica mi confonde, i problemi sociali perplimono, occorrenze memorie e riflessioni incalzano. Ma più d'ogni altra cosa, oggi, mi urge l'istanza cronachistica. Stamattina facevo un assonnato giro tra gli arretrati dei miei BlogAmici, soffermandomi più a lungo sui serial-post di Marina. In particolare su questo, questo e questo. Sulle prime ho sorriso assai. Poi ho sobbalzato: la Prof teorizzava le mie esperienze!
Single da qualche mese, di questi ultimi tempi ho la fortuna di conoscere e frequentare uomini diversi tra loro e - tra croci (molte) e delizie (poche) - mi sto parecchio documentando su quelli che non a caso ho definito nel titolo: Tipi da (non) aMare. Un viaggio semiserio tra grandi verità imperiture e piccole avventure quotidiane. Teoria e pratica, insomma: grazie agli straordinari "Consigli ai giovani" della Prof, andrò a fare una disamina a puntate delle mie più recenti esperienze.

Prof Marina: Se vi sembriamo irraggiungibili è il momento di osare.
Ci piace darvi torto.
Quando invece vi sembra fatta, è il momento di preoccuparsi.
Ci piace darvi torto.


La Funny Valentine: Conosco questo tizio poco prima di Natale. E' uno scalatore dell'anima: non gli importa quanto sia ardua da raggiungere la cima, lui si rimbocca le maniche e, settimana dopo settimana, con le nude mani e muscoli tesi per lo sforzo, cerca di arrivare dove io, ormai da mesi, arrocco. Gli amici, alcuni dei quali in comune, gli dicono a più riprese: "Valentina non è per te". Lo vengo a sapere in qualche modo, e questo mi intenerisce il cuore. Piccole frane interiori smottano e sgretolano le mie più ardue difese, ed io mi sento placidamente ben disposta. Non fosse per un piede in fallo che riattizza i miei sospetti e rinsalda le mie difese.
Perché, mentre di buon grado osservavo la delicatezza e la costanza con cui lo scalatore erodeva i miei baluardi interiori, comincio a rendermi conto del fatto che lui è meno delicato, meno circospetto e soprattutto ha sorrisi da colonizzatore. Dapprima immagino sia orgoglio da conquista, il suo. Poi invece comprendo la verità: nonostante io gli avessi detto ripetutamente che per me la resa non era ancora vicina - anche se forse intuibile -, lui si sente arrivato, tenta di piantare la bandiera sul cocuzzolo (e non siate maliziosi!), e pretende: vuole una relazione, vuole esclusività, vuole 'affetto'. Ecco, come dice Marina, gli "sembrava fatta", e la mia montagna ha tremato di rabbia fino a farlo ridiscendere a valle.
La sua voce si è dispersa, e con essa l'arroganza del suo proprietario.
V

domenica 23 marzo 2008

La Pasqua e il Testamento di Tito

Sono confusa, in questo periodo della mia vita. La politica, la religione, l'autorità: tutto quello che ho creduto e pensato fino ad oggi sta subendo una rivoluzione copernicana, un mutamento di paradigma. Sono in quella terra di nessuno in cui le idee sono caotiche ed eccitate, vagano da una parte all'altra della mia testa, si misurano con la realtà circostante e con la mia coscienza. Per questo, non so che augurio farvi. Non so se dire "Buona Pasqua" sia ciò che realmente penso e che realmente vi auguro. Un fiore è ciò che vi porgo per queste brevi feste, e "Il testamento di Tito", al momento, è l'unica morale provvisoria su cui faccio conto e che mi piace, oggi, condividere con voi.
V

Fabrizio De André, Il Testamento di Tito

venerdì 21 marzo 2008

L'armadio della vergogna

I fatti: tra il 1943 ed il 1945 molte migliaia di civili furono vittime di innumerevoli stragi compiute da nazisti e fascisti in tutta Italia. Un elenco tragico che comprende nomi noti ed altri meno, tra i quali si possono ricordare Stazzema, Marzabotto, Fivizzano, Conca della Campania, Barletta, Fossoli, Matera, Capistrello... Nei mesi successivi alla Liberazione, molti dei colpevoli vennero individuati e su di loro furono aperti procedimenti penali. A Palazzo Cesi - palazzo cinquecentesco in via degli Acquasparta a Roma, sede della Procura Generale Militare - affluirono i fascicoli relativi a centinaia di crimini compiuti dai nazifascisti ai danni di vittime civili. Su quei fascicoli erano annotati i nomi delle vittime, i nomi degli assassini e i luoghi dei crimini. Tutto, però, rimase sepolto e muto in quel palazzo. Non ci furono istruttorie e non si celebrarono processi. Prove, testimonianze e nomi furono risucchiati nell'oblio.
E' stato solo nel maggio del 1994 che il procuratore militare Antonino Intelisano (che si stava occupando del processo contro l'ex SS Erich Priebke) rinvenne a Palazzo Cesi, dentro un armadio con le ante rivolte verso il muro e chiuse a chiave, un grande registro contenente ben 2273 voci e 695 fascicoli, in 415 dei quali si citavano i nomi dei colpevoli. Al 'numero uno' compariva l’eccidio delle Fosse Ardeatine, con i nomi di Herber Kappler, Erich Priebke e altri assassini che, grazie a quell’armadio rimasto chiuso, avevano nel frattempo goduto di cinquant'anni di libertà.
Si dice che fu la ragion di Stato ad imporre l’occultamento di quei fascicoli. Nel mondo suddiviso in due blocchi, in pieno clima di Guerra Fredda, la nuova Germania doveva entrare nella Nato come baluardo contro l’avanzata sovietica. Si preferì, così, tacere i crimini commessi dal nazismo ed aprire una nuova pagina della Storia, il più intatta possibile.

Recentemente mi è capitato di scovare, su internet, l'articolo di un onorevole di AN, tal Enzo Raisi che, parlando dell'armadio della vergogna, ha sentenziato: "non ci fu nessun armadio della vergogna, tesi cara a una certa storiografia di sinistra, né tantomeno una volontà di occultamento. I gravi ritardi che ci hanno portato alla sentenza dell'altro giorno sono dovuti in realtà ai mutamenti della giurisprudenza militare". Questa affermazione, nella sua viscida banalità di parte, mi ha fatto riflettere su quanto ogni cosa, ogni fatto, ogni avvenimento - per quanto crudele, avvilente e vergognoso sia - possa essere politicamente strumentalizzato e deformato, trattato senza alcuna onestà storica o intellettuale. E mi sono chiesta oggi, in pieno clima di campagna elettorale, quale fede dare a tutti i nostri politicanti, di destra e di sinistra. Nessuno di loro mi piace, nessuno mi convince. Nessuno mi ha dimostrato d'avere quel minimo sindacale di rettitudine che me lo renderebbe, non dico simpatico, ma quanto meno preferibile ad altri.

Al nostro onorevole di AN, Raisi, non è venuto in mente, per un istante almeno, che la vergogna di cui si parla dicendo 'armadio della vergogna' non è una categoria politica, non è un concetto strumentale che avvalori o neghi una certa tesi, non è nemmeno un 'penitenziagite' o un anatema collettivo ("vergognatevi, gente!")? Non è venuto in mente, per un istante, che si tratta di una vergogna morale, una freccia luminosa che ci indica la via del 'non è giusto', e che ci spinge a cambiare direzione? Che esiste un 'bene' e un 'male' etico, e non solo politico? O meglio: che il bene ed il male dovrebbero essere al di là di ogni categoria, e insegnarci come si vive, come si fa politica, come e dove dobbiamo indirizzare la nostra vita, pubblica e privata?
No, non credo che queste peraltro banali riflessioni vengano in mente tanto spesso ai nostri politici.
V

Carlo Lucarelli, L'armadio della vergogna, parte prima.

giovedì 20 marzo 2008

La Classica di Primavera in musica

L'anno scorso, di questa stagione, la città intera se la stava ridendo. Il Comune, giusto in occasione della Milano-Sanremo, aveva appostato, alla fine di una discesa e prima di una piazza, una minuscola rotonda adornata da imponente macina d'epoca. Eravamo terrorizzati: con la velocità che avrebbero avuto i corridori alla fine di Capo Berta, e quel mostruoso monumento in pietra ("Non potevamo non metterlo", si scusavano i vari politicanti che avevano deciso l'ardua innovazione architettonica, "la macina ce l'ha gentilmente donata il figlio dello zio di Paperon de' Imperiopoli..." Capo chino e genuflessione), i nostri occhi erano invasi dalle tragicomiche immagini di orde di ciclisti in fuga che fatalmente si schiantavano sulla macina d'epoca di Paperon de' Imperiopoli, e tutta la nostra cittadina irrisa e additata dall'Italia intera per aver causato la morte di qualche decina di sportivo... Sfottimento nazionale in 'prime time' e scuse pubbliche: sì, siamo degli imbecilli, lapidateci coi resti della vile macina d'epoca! Paperon de' Imperiopoli, ti rinneghiamo! Sciò, animaccia 'nfame!
Non accadde nulla di tutto ciò: la gara non registrò incidenti, almeno non all'ingresso della nostra ridente cittadina e non a causa dei doni dei nostri generosissimi contribuenti. Pace e bene, ite missa est. Amen.
Che poi di ciclismo io non ne so niente, per carità. Ma ci sono due stagioni del vecchio ciclismo che mi emozionano sempre, ogni volta che le ascolto: quella di Girardengo negli anni '20 e quella di Bartali, negli anni '40. Due stagioni che evocano un agonismo sano e festoso, dove si correva per rabbia o per amore. Pedalate e polvere, l'attesa della gente ai bordi delle strade, i francesi che s'incazzavano (che le balle ancora gli girano) e, soprattutto, l'attesa di quel naso triste come una salita. Le donne, sì, a volte erano scontrose e avrebbero preferito un bel mazzo di rose - o il rumore che fa il cellophane (ma forse, oggi come ieri, avevano solo voglia di far pipì), ma poi alla fine anche loro avevano polvere nei sandali, e bevevano birra ai bordi della strada tra i giornali che svolazzavano, con gli occhi allegri da italiane in gita.
V

Il Bandito e il Campione, F. De Gregori


Bartali, P. Conte

martedì 18 marzo 2008

Il controllore che in treno parlava d'amore

Ieri, mentre tornavo in treno da Torino, passa il controllore e mi chiede il biglietto. Glielo porgo e lui lo guarda, lo rigira, poi esclama: "Signorina, questa è la prenotazione del posto! Io ho chiesto il biglietto". Mi si dipinge un certo stupore, in viso. Farfuglio: "Ho fatto il biglietto automatico... questo è quello che la macchina mi ha dato... io non so altro..." Il controllore, con un sospiro, si siede di fronte a me, si gratta la testa e inizia a dire: "Signorina, non voglio passare per quello maschilista, sa, ma siete sempre e solo voi donne a fare questi casini... non me ne capacito!", poi cantilena, scandendo bene parole e sillabe, "Legga cosa c'è scritto sul suo biglietto in fondo a sinistra... legga, su. Totale biglietti erogati? ... Lo vede? 2! Due, signorina... E il display della macchina automatica glielo dice a caratteri cubitali: NUMERO BIGLIETTI DA RITIRARE: 2!" Eh eh, sorrido io con fare umile. Ha ragione, ma deve sapere che sono arrivata a Porta Nuova cinque (non sto esagerando a beneficio del controllore, è la pura verità) cinque minuti prima della partenza del treno, senza biglietto e con una fila agli sportelli che rendeva improbabile la prospettiva di un mio ritorno a casa in serata. Mi guarda con dolcezza, si gratta ancora la testa e sorride. "Signorina, che le devo dire? Sarà innamorata..." Mi si triglia l'occhio, sento una vampata di caldo tra il collo e l'orecchio ed esclamo, stupita: "In effetti a Torino avrei conosciuto una persona...", "Ah sì? Bene bene... mi racconti!" Mi rende il biglietto-prenotazione, incrocia le gambe, mette via il palmare e mi guarda con aria partecipe. "Mi dica: dove l'ha portata per fare così tardi in stazione?" Catturata dall'acume della vecchia volpe, mi sembra inutile nicchiare e rispondo: al Valentino. "Che romantico!", esclama, e aggiunge "Non faccia la ritrosa, mi racconti, coraggio, che il treno è mezzo vuoto e poi mi piacciono le storie d'amore!" Sorrido.
E' una storia breve, inizio io, e nemmeno d'amore. Una storia breve fatta di coincidenze, e di un ragazzo che ha saputo stupirmi. Che, per rintracciarmi e propormi un passaggio, ha fatto una catena di sant'antonio di telefonate, poi mi ha scarrozzato per le vie assolate di una Torino luminosa e calda. Ci siamo seduti su una panchina di fronte al Po, gli alberi spogli ma gemmati. Abbiamo bevuto dell'acqua e un caffè, parlato delle nostre passate esperienze sentimentali e scherzato lievemente. Tutto molto limpido, in un certo senso banale. Ma è stata proprio la qualità consueta e calma di quell'appuntamento a lasciarmi una buona sensazione addosso - come il gusto del buon caffè che rimane sulla lingua ancora a lungo. Niente più di questo, concludo. Due baci sulle guance a ridosso di un treno preso per caso e per fortuna, e una battuta detta quando le porte si stavano chiudendo: "Hai il mio numero, Vale. Usalo".
Guardo il controllore. Annuisce. Posa le mani sulle ginocchia e si dà una spinta per alzarsi in piedi, ché la stazione di Alessandria è ormai vicina. Uscendo dallo scompartimento, si volta e mi chiede: "E lei, cosa gli ha risposto?", "Gli ho detto: 'Usalo anche tu', ma senza guardarlo negli occhi". "Bella mossa", commenta. E, mentre è già nel corridoio e io non lo vedo più, aggiunge - col sorriso nella voce: "Vedrà che a Pasqua sarà da lei".
V

domenica 16 marzo 2008

Il sabato degli Shark

Ieri sera ad un certo punto ho inviato un sms disperato ad un amico scrivendogli: salvami! Avevo ingenuamente preceduto la mia compagnia al locale pensando: mentre li aspetto scambio due parole con C. (la barista) che non vedo da una vita. Non faccio in tempo a sedermi sullo sgabello, seminare borsa sciarpa e cappotto su altri quattro sgabelli, che Mr. Shark (alto, magro e brizzolato) si avvicina a me con assoluta e malriuscita nonchalance, mi ruota attorno un paio di volte poi, incoraggiato dall'amico Shark II (alto, grasso e canuto), mi si piazza a fianco. "Cosa bevi?", indaga lui. "Un daiquiri molto secco", rispondo, e tuffo gli occhi sul fondo del bicchiere, con assoluta e - lo dimostreranno i fatti - malriuscita nonchalance. Shark I, lo si nota subito, non è del posto. Ha una parlata strascicata da Vorrei Far Parte Della Upper Class, gesticola rumorosamente (il che denota che dalla upper class è piuttosto lontano), e parla. Parla in continuazione. Parla e gesticola. Parla di sé, si smutanda davanti a noi con trasparenza disarmante.
Nei primi cinque minuti mi ha spontaneamente reso edotta del fatto che:
1. è dell'acquario (di febbraio, però, che quelli di gennaio son degli stronzi, parola di Shark);
2. è sposato, separato, con una figlia di due anni e mezzo a cui ha intestato un appartamento. Alla moglie - ma non abbiamo più rapporti sessuali anche se spesso dormiamo assieme... - passa 300 euro al mese, e ne approfitta per ricattarla amorevolmente: siccome ha il vizietto, se domani mi gira le mando la polizia a casa, le faccio fare le analisi del sangue, e la bambina è mia. Ma no, che alla fine non sei così figlio di puttana, suggerisco io. Sì sì che lo sono. Ah be', allora...
3. è piemontese ma il Mondo è la sua casa, perché sai: a me annoia tutto. NY?, dopo un mese m'ero rotto i coglioni (per cui ora si sente in diritto di romperli a sua volta agli italiani tutti). La Spagna?, adoro le spagnole (ommioddio, vuoi dire c'era il doppiosenso e io l'ho capito solo ora?) ma gli spagnoli mi stanno qui. E sussurrando con fare carbonaro: sai, puzzano. Per non parlare degli arabi e della guerra in Iraq che, intendiamoci, è sbagliatissima, per carità. Ma, già che c'era, Bush poteva completare l'opera e sterminarli tutti, che 'sta gente è pericolosissima, e ci sotterrerà, garantito. E conclude questo girotondo-intorno-al-mondo con l'esegesi delle sue innumerevoli esperienze. Mi spiega, infatti, che viaggia non solo perché si annoia, poverello, ma anche perché oggi, con la globalizzazione, essere Cittadini del Mondo è un diktat. Amen.
Dopo questa alta lezione di sociologia, lo fermo perentoriamente e invoco una pausa sigaretta. All Alone. "Che bell'idea! Vengo anch'io".
Che culo.
V

venerdì 14 marzo 2008

Etty Hillesum e la bellezza del mondo

Hetty Hillesum era una giovane donna luminosa. Così la ricordano alcuni sopravvissuti che hanno condiviso con lei i giorni di prigionia a Westerbork prima di essere destinati ad Auschwitz. Era luminosa, intelligente, forte e passionale - anche nelle sue umanissime fragilità di donna, di ebrea e di individuo in itinere. E' stata una pensatrice di abissale profondità ed elevata spiritualità, capace di osservare l'individuo nei suoi più oscuri anfratti interiori ma senza mai perdere quella luminosità che la contraddistingueva. Eppure, Etty Hillesum non è diventata nota come Anne Frank o Primo Levi. Perché?
All'inizio pensavo fosse perché Etty Hillesum è effettivamente una lettura complessa: ricerca psicologica e misticismo, istanze etiche e visioni straordinariamente moderne, ne fanno un percorso arduo, in certi tratti. Poi, parlando una notte con degli amici (attorno ad un bel tavolo tondo di legno chiaro), abbiamo capito il vero motivo di questo ostinato mezzo oblio: lei non è rassicurante, lei ci sbatte in faccia una verità che non vogliamo ascoltare, lei ci dice: "Il marciume che c'è negli altri c'è anche in noi [...] E' l'unica lezione di questa guerra: dobbiamo cercare in noi stessi, non altrove". Noi siamo Hitler, noi siamo i vicini di Erba - non il nostro dirimpettaio, non un'epoca storica lontana da qui ora.
Eppure (ma in questo 'eppure' non c'è niente di consolotario) dobbiamo conoscere e saper riconoscere in noi stessi questo marciume per poterlo strappare via, perché non si può "migliorare qualcosa nel mondo esterno senza aver prima fatto la nostra parte dentro di noi".
Questa donna scelse di essere deportata ad Auschwitz con la propria famiglia, rifiutando i numerosi progetti di fuga che le erano stati offerti. Decise, senza illusioni o false speranze, che quello sarebbe stato il suo destino, "essere divorata dai pidocchi in Polonia". Lo scelse, e non era infelice, né tantomeno pazza o sognatrice. Non era una martire. Questa donna, chiusa su un treno merci che l'avrebbe rapidamente portata alla morte, lanciò da quel treno una cartolina che fu in seguito ritrovata da alcuni contadini. Su di essa, Etty aveva impresso il suo testamento e la sua testimonianza: "Abbiamo lasciato il campo cantando".

Ho aperto a casaccio la Bibbia ma stamattina non dava risposta. Non importa molto, del resto, non c'erano vere domande da fare, c'è solo una gran fiducia e riconoscenza che la vita sia tanto bella, e perciò questo è un momento storico: non perché tra poco io devo andare con S. alla Gestapo, ma perché trovo ugualmente bella la vita.
Probabilmente è da lì che mi viene questa serenità, questa pace interiore: dalla coscienza di sapermela cavare da sola ogni volta, dalla constatazione che il mio cuore non si inaridisce per l'amarezza, che i momenti di più profonda tristezza e persino di disperazione mi lasciano tracce positive [...] Partirò sempre dal principio di aiutare Dio il più possibile e se questo mi riuscirà, bene, allora vuol dire che saprò esserci anche per gli altri.
La maggior parte degli occidentali non capisce l'arte del dolore, e così vive ossessionata da mille paure. E la vita che vive la gente adesso non è più una vera vita, fatta com'è di paura, rassegnazione, amarezza, odio, disperazione. [...] Si deve accettare la morte, anche quella più atroce, come parte della vita. Io sono quotidianamente in Polonia, sono accanto agli affamati, ai maltrattati e ai moribondi, ogni giorno - ma sono anche vicina al gelsomino e a quel pezzo di cielo dietro la mia finestra, in una vita c'è posto per tutto. Per una fede in Dio e per una misera fine.

Etty Hillesum, Diario

V

giovedì 13 marzo 2008

Imperia mon amour

A volte penso di vivere in un deserto: e ciò che ci allarga lo sguardo, a noi liguri, è solo il mare davanti, ma le colline a strapiombo ci mettono con le spalle al muro. E ci sono delle volte in cui, scendendo da Milano, quando incontro il mare da un finestrino, la bocca dello stomaco mi si chiude, e la pelle scorre di un brivido freddo, e penso che potrei perdermici in quella mostruosa bellezza cangiante.
Ma Imperia è un deserto, credetemi, e io ci vivo in apnea, poi sento di non poterne più - il fiato ho bisogno d'aria - e prendo un treno, uno qualunque. Poi torno, perché come mi torce il cuore questo metro di terra a bagnomaria, questa lingua di serpente che nessuna carta geografica riuscirà mai a localizzare con precisione, nessun altro riesce. Eppure c'è il nulla, a Imperia: nelle librerie non ci sono i libri, i cinema sono stati drammaticamente decimati (per farvi un'idea della situazione, consiglio di leggere qui), non esistono locali e le videoteche sono sconsolatamente sprovviste: che se vuoi vederti l'ultimo di Pieraccioni, sei a cavallo, ma se chiedi Costa-Gravas ti guardano attoniti, Costa-che?
Questo vuoto pneumatico lo trovai icasticamente espresso su un muro dell'università a Milano. Passeggiavo con un'amica per i chiostri, quando la mia attenzione fu catturata da una scritta discreta ma autoritaria che mi fece verde di rabbia: Imperia al rogo, Sanremo capoluogo. E nonostante il mio livore, riconosco che il poeta anonimo in rima baciata non aveva nemmeno tutti i torti.
Siamo quattro gatti, tristemente compiaciuti del molto poco che offriamo a noi stessi, tutti, e i giovani più di tutti gli altri. Quelli bravi che conoscevo sono andati via: e se l'Italia non offriva posti abbastanza lontani, hanno scelto l'estero, Londra, Bruxelles, la Cina. Io no. Io sono rimasta (certo, con un piede solo, che l'altro è errabondo), perché forse sono meno brava, o forse troppo pigra, ma magari sono rimasta perché voglio credere che questa sia terra fertile, che - assieme a qualche altro 'bravo' superstite - voglio provare ad arare, seminare, curare. Voglio darmi una possibilità, e darla a questa città questo mare che amo con furia e rabbia. Vorrei che il mondo fosse un immenso tesoriere, uno scrigno, e tuffarci le mani fino ai gomiti - toccare vedere capire e scegliere - trattenendo fra le dita qualche gioiello o idea o persona o forma da trapiantare in questa mia città. E' per questo che da poco abbiamo fondato un'associazione culturale: per fare, e finalmente smetterla di mugugnare.
Ditemi che non sono un'illusa, per questa speranza e questo progetto.
V

martedì 11 marzo 2008

Pioggia, e la notte (Cantico dei Cantici)

In un attimo ho ritrovato la mia più spinta architettura interiore, fatta di emozioni che gesticolano e svettano, di pugni allo stomaco d'adrenalina e impazienza. Esattamente com'era successo alcuni mesi fa, un istante è bastato - come un click - ad aprire mondi e lasciar fluire intorpidite sensazioni viscerali. Ho guardato il mare attraverso queste persiane che stillano gocce di pioggia come resina, e mi è sembrato che la bellezza mi avesse teso la mano per traghettarmi nell'ovunque che lei circonda. Mi ha afferrato, cruda, fino a farmi chiudere gli occhi digrignare i denti, e la mia pelle non aveva più nessun confine riconoscibile, era in quell'ovunque quell'istante. Perché se le tue mani mi afferrano, è come se la bellezza stessa mi afferrasse: levigata, forte, prepotente. Ho amato le tue mani come il tuo sapore, che ha lasciato un bisogno di ritorno su quelle stesse vie le strade i ponti e le scorciatoie che mi hai disegnato addosso. E' stata la notte a vestirmi e svestirmi e lasciare scie di intenso piacere come volute di facile comunione: un glorioso cercarsi trovarsi che non conosce soluzione di continuità. E' durato una notte, ma ancora oggi cola dal cielo e fluisce nelle vene come questa pioggia-resina che rimane incrostata al cervello incrostata alla carne. L'acqua non può lavare ciò che il desiderio ha smosso e poi infiammato, che l'acqua lava solo quello che si lascia scivolare via; ma le tue braccia mi trattengono, e la pioggia è impotente.  

"Mi son levato la tunica,
perché indossarla ancora?
Mi son lavato i piedi,
perché imbrattarli ancora?..."
"Il mio diletto spinse la mano
dentro lo spiraglio,
e si commosse per lui il mio cuore.
Mi levai per aprire al mio diletto
e stillarono mirra le mie mani,
e le mie dita mirra fluente
sulla maniglia della serratura."

Cantico dei Cantici

V

lunedì 10 marzo 2008

E la lotta si fa scivolosa e profonda (1996)

Stavo seduta con Manuel nella sua macchina e davanti al mare. Con quel suo particolarissimo senso del momento, silenziosamente aveva inserito una cassetta nello stereo catalizzando la mia attenzione con un solo cenno del capo, e facendomi ascoltare per la prima volta Anime Salve. Era il 1996: io e lui ci eravamo conosciuti da poco - ma saremmo rimasti insieme a lungo.
Manuel è De André, più di quanto lui stesso sappia. Scivola attraverso i giorni con occhi umidi e passo saltellante, e nella sua stranita levità posa sguardi stupiti e belli sulle cose: occhi di tre quarti che tagliano il mondo e lo sfaccettano come fosse pietra preziosa. L'ho amato molto, nell'età in cui amare è un lusso e una fortuna e lo si fa così: sconsideratamente e a rotta di collo.
Passavamo ore ad ascoltare De André: non solo delle sue anime sciolte e libere e risolte e vaganti, ma anche il De André storico, quello delle ballate e il dialettale, compagno di merende e rime con Paolo Villaggio, e il poeta dei Vangeli apocrifi. E sempre ci stupiva, nel suo percorso di musicista in versi, la perfezione ricercata e - solo infine - trovata nella pronuncia della parola: dolore. De André dice 'dolore' e tu senti dolore. In quel filo rauco che percorre le note e i testi, quella vena di sensualità e mistero di cui è increspata la sua voce, il 'dolore' rappresenta il vertice e la meta del suo percorso di ricerca: umana e poetica.
... e allora siamo cresciuti così, insieme, io guardando quelle sue promesse di lacrime negli occhi, le orecchie ben spalancate a cogliere accenti e tormenti del bel Fabrizio, e lui a osservare - affamato, è vero, ma quieto - il mondo e le sue luci, i suoi angoli bui e sporchi senza ritrarsi, ma sempre in silenzio: che a Manuel il mondo traboccava dagli occhi ma raramente sgorgava parola (un sollievo di lacrime a invadere gli occhi, e dagli occhi - cadere). E nonostante mi sentissi soggiogata e schiava di quegli occhi muti, io mi sentivo come la moglie di Anselmo: sognavo del mare che, quando ingorga gli anfratti, si ritira e risale. Il mare è diventato idea di fuga, e la fuga, poi, si è fatta lontananza.

Oltre il muro dei vetri si risveglia la vita, che si prende per mano a battaglia finita
come fa questo amore che dall'ansia di perdersi ha trovato in un giorno la certezza di aversi.

V

Dolcenera, F. De André

domenica 9 marzo 2008

Lezioni di filosofia nel giorno della donna

Il mio vecchio, illuminato professore di Filosofia morale all'università, Virgilio Melchiorre, ha dato quella che, secondo me, è una delle più affascinanti descrizioni fenomenologiche della distinzione tra uomo e donna. Oggi, nell'ormai abusata Festa della donna, propongo alcune delle più interessanti tesi da lui espresse nel saggio Metacritica dell'eros.

L'uomo è per natura cavaliere errante: il suo spirito - attratto dal trascendente e dall'altrove - vaga e vaga, fatalmente attirato da orizzonti sconosciuti. Ma il pericolo intrinseco di questo irrisolto vagare sta nella tentazione di fuggire - senza fedeltà e senza memoria - anche da se stesso, e al contempo nel rimanere prigioniero di questa fuga che si attua senza soluzione di continuità, come condanna o destino. La donna, per natura stanziale e castellana, Terra e grembo e custodia, memoria e fedeltà, reca in sé i pericoli della sterile conservazione, della pochezza di vedute e prospettive.
Eppure, uniti questi due limiti e queste due grandezze, ne deriva una formidabile ricchezza relazionale, che è tanto più profonda quanto più intenso è il rapporto. Finitezze ed infinità maschili e femminili si possono allora incontrare laddove l'uomo diventi cavaliere della finitezza e lei castellana dell'infinito, ovvero poli alternati e complementari in cui la donna riesce a fiorire come finitezza aperta all'infinito, e l'uomo a definirsi come infinito determinato dal finito.
Citando Schleiermacher, potremmo concludere dicendo che

l'uomo con l'amore guadagna di unità, di collegamento di tutto ciò che è in lui col suo vero e sommo centro, insomma di chiarezza e di carattere; la donna invece di coscienza di se stessa, di espansione, di sviluppo di tutti i germi spirituali, di contatto col mondo intero. [...] Voi uomini ci perfezionate; ma noi vi consolidiamo.

[Tratto da L'amore romantico]

V

giovedì 6 marzo 2008

Sulla famiglia, e mia madre

Copia di cortesia di EPolis Milano, giornaletto che viene distribuito gratuitamente per le strade della città: in prima pagina si legge il titolo "Spedizioni razziste in città, sprangate contro i filippini". Autori di quest'atto di violenza: quattro ventenni (arrestati) e dodici minorenni (denunciati), tutti italiani. Un carabiniere ha commentato: "Fatto più unico che raro [...], non si registravano da tempo aggressioni con matrice razzista". E, come a contraddire l'ottimistico carabiniere, si legge in un trafiletto della stessa pagina: "Molotov al campo rom: due molotov contro il campo nomadi di via Idro sono state lanciate martedì sera".
Leggo queste notizie, e nella testa ho una gran confusione: ragazzetti che a scuola picchiano i compagni disabili, e mettono in Rete il filmato girato col cellulare; bambine di 12 anni che si fanno palpare, o fanno sesso, in cambio di qualche spicciolo per una ricarica sul telefonino; oscuri studenti universitari che - il vuoto negli occhi - massacrano giovani donne, fidanzate o amiche, lasciandole cadaveri in pozze di sangue.
Nella mia confusione c'è il senso di qualcosa di troppo grande da affrontare - ma non da capire. Le famiglie, la famiglia: ecco qual è il problema, e qual è la soluzione.
Ho un'amica. E' una bella donna torinese di 49 anni, bionda e fine. La conobbi quattro anni fa quando, scesa in Riviera, si innamorò, ricambiata, di un mio amico molto più giovane di lei. Hanno avuto una lunga storia e travagliata, i cui strascichi si protraggono ancora ora: più nessun sentimento da parte di lui, forse, ma in compenso molto sesso durante i weekend. Lei ha una bella figlia appena maggiorenne, e io ho sempre provato per questa ragazzina una pena enorme. 
Penso a mia madre, augusta donna di famiglia vecchio stampo, sorridente ma temibile nella sua severità di quand'ero adolescente. E riconosco quanto la sua severità abbia preservato la mia adolescenza, quanto l'abbia saputa indirizzare e rendere sana. Litigavo con lei, strepitavo, battevo i piedi (che sono sempre stata ribelle), ma la rispettavo perché si faceva rispettare dalle bizze ormonali e caratteriali di una bimba appena cresciuta. I suoi 'no' erano no inflessibili, e allora correvo da mio padre, che mitigava la forza di quei 'no' ma non li contrastava, e io passavo la notte a piangere sul cuscino, a morderlo anche, a guardare con occhi sbarrati le luci dei lampioni che filtravano dalle persiane pensando con ardente furore al mondo, là fuori.
Ho avuto una madre come un grembo fertile su cui seminare la mia identità e veder crescere i frutti. Una madre che quando rispondevo male mi tirava una sberla sulle labbra, e quella fede d'oro giallo bruciava quanto l'orgoglio ferito. Oggi, scherzando, le dico talvolta: "Avresti dovuto tirarmene di più" perché il vezzo della battuta caustica e sferzante non l'ho mai perduto. Ma ho imparato a gestirlo, a indirizzarlo.
E mi chiedo: dove si sono perse le madri di quei ragazzi violenti, inconsistenti e sbandati - oggi? In quale letto, su quale scrivania ingombra di carte, in quale ansia insoddisfazione o specchio deformante? Di quale abbaglio sono vittime, di quale paura schiave e su quale sentiero vagano tentando di ritrovare la strada? Il loro smarrimento è la nostra condanna.
V