giovedì 28 febbraio 2008

Sciacalli col microfono

Avere un spazio pubblico in cui scrivo, e sapere che qualcuno mi legge, mi pone ogni volta di fronte a delle scelte: cosa dire, e come. Perché, anche nel mio piccolo, ho una responsabilità nei confronti di chi entra in questo spazio e si trova di fronte a queste parole. La responsabilità consiste innanzi tutto nel non tradire me stessa, le mie idee e i miei gusti; ma consiste anche nel non offendere gli altri, non prendermi gioco di nessuno, non mirare a caso nella folla e premere il grilletto di una rabbia che è solo mia. Ma oggi questo grilletto lo premo, eccome. Oggi non metto freni, né filtri tra ciò che penso ed il politically correct. Perché oggi, questa mia rabbia, ha un bersaglio e una direzione.
Guardavo il Tg, ieri sera, ascoltando lo straziante epilogo della vicenda dei due fratellini scomparsi a Gravina di Puglia un anno e mezzo fa. Una notizia raccapricciante e dolorosa, per la quale un'asciutta cronaca sarebbe stata sufficiente ad informare (che questo, se non erro, è il compito di un giornalista). Invece no. Per l'ennesima volta di fronte ad una tragedia familiare, ho assistito a servizi ributtanti ed ignobili vilmente improntati al sensazionalismo, pronti a sfamare la voracità di sangue che ha ormai la nostra società, rimpinguati di sciacalli col microfono che accerchiano una madre orfana di figli chiedendole in massa: "Come si sente?" E glielo ficcherebbero in gola se potessero, quel cazzo di microfono, per poter amplificare a nostro beneficio i singulti di un'anima straziata e persa. Gente che non si ferma davanti a niente, per la quale il silenzio è morte e ucciderebbe per una parola 'in anteprima'.
Li ho odiati, li ho spenti, zittiti immediatamente: nero su di voi che vivete e mangiate sulla pelle martoriata degli altri! Nero sui vostri microfoni cannibali e sulla vostra retorica immorale! Nero sulla vostra criminale insensibilità vestita in doppiopetto! Nero, come l'ignominia del lavoro che fate, dei soldi che ci guadagnate e dei sonni troppo tranquilli che ancora riuscite a dormire...
V

Giochiamo ai 7 segreti...

Enzo Rasi mi ha invitato ad un meme che trovo intrigante: si tratta di svelare ben sette segreti, e invitare altrettanti blogger a fare lo stesso. Ringrazio, e accetto.

1. Da bambina avevo una scatola fatata, era una valigetta di plastica, di quelle piene di colori e tempere e pastelli. Io l'avevo svuotata e riempita di piccoli oggetti immaginifici: specchietti, ciondoli, pietrine di mare e penne (che fin da bambina sapevo che la vera magia è nelle parole). Mi mettevo in un angolo solitario del mio giardino, aprivo la valigetta e chiudevo gli occhi. In quell'attimo, improvvisamente, tutto diventava bello, e anche io - e la mia vita. Sgargiante e luminosa come uno sprazzo di arcobaleno.

2. Di notte, ho continuato a succhiarmi il pollice fino all'adolescenza.

3. A scuola odiavo fare le traduzioni di latino e greco. I miei prof, che mi hanno sempre reputato una brava studentessa ligia, non hanno mai sospettato che io le traduzioni le copiavo al mattino, pari pari dai miei compagni di classe, sfoggiando una superba arte del copia-e-incolla tra diverse versioni.

4. Ho detto molte volte 'ti amo', e quasi mai era sincero. Ogni volta che ho detto 'ti amo', dentro di me cantava De Gregori:
Sarà che i cani stanotte alla porta li sento abbaiare,
sarà che sopra al mio cuore c'è scritto "Vietato passare",
il mio amore è un segreto, il mio cuore è un divieto,
personale al completo... E va bene così.

Questa, penso, è stata una delle mie sconfitte più grandi - questa incapacità di sciogliere il ghiaccio, e provare almeno provare a togliere i catenacci.

5. Sono vile, specie nelle relazioni. Una volta, per non incontrare uno spasimante un po' troppo sollecito che mi voleva a tutti costi venire a prendere in stazione, inventai che il treno aveva deragliato... Un piccolo deragliamento innocuo, ma sufficiente a bloccare il viaggio giusto a metà strada. Me ne vergogno, ma solo un poco.

6. In questo blog ho parlato più volte di una persona che in realtà non esiste. In questo blog ho smesso improvvisamente di parlare di una persona con cui non ho chiuso del tutto i conti. In questo blog, ciò che nascondo ha più peso di ciò che rivelo.

7. Domani sera voglio fare una cosa. E, pur di farla, dirò una bugia.

Di seguito, elencherò qualche blogger di cui realmente mi piacerebbe sapere i 'segreti'...
Primo fra tutti: Daniele e il suo Barça, a cui dedico un bacio speciale.
A Marco UK, il cui mondo un po' straniero e un po' nostrano mi incuriosisce e mi attrae.
A Baluginando, che sicuramente saprà fare di questi sette 'segreti' sette scrigni di poetica bellezza.
Ultima ma non ultima, vorrei citare la simpaticissima Anna a cui Scappa, di cui conosco l'amore per i meme... ehm... Anna, no dai, eh eh, sto scherzando...! Ti cito, ma non ti nomino!

V

martedì 26 febbraio 2008

'Brevi' sul rugby

Domenica per la prima volta sono andata a vedere una partita di rugby. Senza conoscerne le regole, senza sapere niente di più di quello che racconta Marco Paolini nei suoi spettacoli. E ripensando a Paolini, alla 'mancansa d'ignoransa', nei momenti più drammatici (quando al termine di una mischia uno della 'fanteria' rimaneva a terra rantolante) io me la ridevo. Proprio una bella risata spontanea, che nasceva da un fondo di adrenalina che mi attorcigliava le budella per il rumore di ossa e denti e muscoli che andavano spaccandosi sulla terra fangosa del campo.
E' un bel gioco, il rugby. Un gioco maschio e ordinato, danzato, lottato e urlato. Con qualche stralcio di sangue e delitto, ma anche molta coreografia e potenza ragionata. Mi ha tirato fuori la voglia di lotta, e la leggerezza dello sguardo.

... Alla fine gli ho detto: "Vorrei essere il tuo pallone da rugby, che tra le tue braccia arriverei sicura alla meta". E abbiamo riso sul suo sopracciglio spaccato. Perché arrivare alla meta ci s'arriva con i calli alle mani e il cervello stanco.

V

venerdì 22 febbraio 2008

Farewell

Guardami con quello sguardo buono e calmo che hai - come io non sono, ma tu sì, e questo mi basta. Guardami, e fammi perdere la strada, ma tenendomi per mano che la tua mano è la mia forza anche se a volte la fisso e nemmeno la riconosco. Se l'amore è questa lava lenta che mi placa l'anima bruciandola (che con te scotto, ma non vado a fuoco), allora ti amo ma anche no, e in fondo non mi interessa. Perché ci sono, adesso, ma sono già oltre, e in quell'oltre che sono voglio dirti quanto la calma del tuo sguardo e la forza delle tue mani - e le tue labbra, le parole rare che ogni tanto ti escono belle dalla bocca - mi abbia incollato i pezzi, aderito corpo e anima e fatto godere. Non mento quando dico che ti amo ma che nel domani è già finita, e se questa folle scheggia di presente ti basta o te la fai bastare, allora è tutto tuo quello che mi vedi addosso. E' un regalo che mi porgo, questo quieto esserci per te per noi. Mi capita di guardare i tuoi occhi, e sorriderci dentro in mezzo, che c'è una forma di dolcissima nostalgia in questo guardarti in prospettiva, da un domani che mi troverà via. Ti vedo con la vecchiaia annidiata nel mio sguardo - che non sei Tu - tu sei solo la mia vacanza e il mio giorno di sole. Ma, amore, è inverno. Spesso, quando ti penso, mi chiudi gli occhi in una fantasia senza immagini e gradevole, ché tu sei un buio che non mi fa paura. E se leggerai queste parole, so che lo farai perché sei un folle che crede nei sogni e corre corre fino a sfiancarsi per acciuffarli, ti dico: non credere a questo sogno, che non c'è nulla da sognare, solo una giornata calma di vento e palpebre chiuse. Il domani è terra soltanto mia, e un po' fa male star con te avendoti già perso, ma un po' no. In fondo la verità la custodiscono i miei occhi, che sono occhi che non imparano a riconoscere le tue mani, e le tue mani rimangono una pelle che non sento mia.
Camminami lieve dentro, amore, così quando la strada sarà finita non sentirai stanchezza nei tuoi piedi.
V

Pollon combinaguai (vampiressa di ventenni!)

Il ragazzo è del genere 'bello': non appena lui esce dal locale Francesca, da dietro il bancone, si protende verso di me e sussurra concitata: "Vale, dove l'hai pescato questo figo?". Vale fa spallucce con aria compiaciuta. Lui, il belloccio, sono sei mesi esatti che, tra sms e squilli sul cellulare, auguri inviti e sospiri e cazzeggi, prova ad incontrarmi - memore di una sera d'agosto quando ci conoscemmo e, allegramente embriaghi, ci scambiammo il numero. E un bacio. E scioccanti rivelazioni biografiche: il belloccio ha qualcosa come 22 anni. Uhm...
Preludio. [Dove al posto di dire 'ciao'...]
Arriva all'appuntamento con un quarto d'ora di ritardo. Lo guardo da sotto in su, e lui esclama: "Tra i tanti difetti che ho, sono bugiardo e ritardatario". Mi scappa da ridere, come se qualcuno mi solleticasse le ascelle con una piuma.
Atto primo. [Dove si comincia a capire cos'ha il belloccio nella zucca]
Ci sediamo in un angolo, sgabello di fronte a sgabello. Lui assume la classica posizione virile a gambe larghe, ma smorzata da una manina pudica che difende là davanti. Io incrocio le mie, e tengo in mano il bicchiere. Lo guardo (lo ammiro), e lui riesce ad inanellare la seguente raffica di affermazioni: "Sono una persona atipica: non mi piace corteggiare le ragazze, non voglio che mi facciano complimenti, non regalo fiori, non amo i cellulari e sono cattivo" (la lista della spesa, insomma), "Mi piace bere tanto", "Non mi era mai successo di uscire con una ragazza e parlare quasi solo io... sai, non voglio essere inquadrato", "Ho una mezza relazione con una tipa che è abbastanza innamorata di me, però dal mio punto di vista non stiamo insieme" (domanda mia: "E dal suo?", ride, abbassa gli occhi, beve un sorso di birra versandosela sui pantaloni, e, ormai tutto rosso in viso, risponde: "Non lo so. Non è che ci parlo tanto..."). E questo è solo il primo atto...
Intervallo. [Dove il belloccio si sblocca]
Lui: "Ah già, che a San Valentino ti ho anche fatto gli auguri di buon onomastico!", io: "Già. Che tenero..." Si spolvera un granello di Povere Invisibile dalla manica e aggiunge: "E' che io la penso diversa dagli altri. Per me l'amore non è importante, metto prima tantissime altre cose: bere [non avevamo dubbi], gli amici, il calcio..." Gli sfioro un braccio, e commento con forza: "Fai bene! Divertiti, che per l'amore c'è un sacco di tempo". Mi guarda, improvvisamente folgorato. "Sei la prima ragazza che me lo dice!", e sul serio ho temuto potesse all'improvviso innamorarsi di me.
Atto secondo. [Dove l'audacia...]
Scoperto che non gli chiederò di sposarlo entro la fine del nostro primo appuntamento, Belloccio si rilassa, mi guarda a lungo negli occhi e tenta pure la battuta erotica. Robertina chiede di spostarmi per prendere qualcosa nel cassetto davanti a cui sono seduta. Io scivolo giù dallo sgabello e mi ritrovo vicina a lui, in mezzo alle sue gambe. Mi sussurra, con voce maliziosa: "Dove vai?", e inizia a percorrere una china da me non prevista, e neppure minimamente voluta. Racconta della sua famiglia: "Ho due fratelli maggiori e, pensa, io sono considerato il più brutto!" Ribatto prontamente: "Non prenderla come un fatto d'età, ma potresti presentarmeli, questi fratelli..." Mentre io me la sorrido per il sottile doppio senso della battuta, Belloccio tutto serio risponde: "Io sono il fratello che ti sei beccata, e questo ti tieni..." Una condanna, insomma.
Conclusione, applausi, sipario. [Dove il belloccio mi porge l'altra guancia]
"Devo andare ad allenamento, bella donna". Mi sfiora le caviglie, saggia la consistenza dello stivale, approva, e finalmente paga gli aperitivi, congratulandosi con se stesso per la cavalleria del gesto. Lo accompagno alla porta, e mi ritrovo la sua guancia davanti alla bocca. Do un tenero bacino e lo ricevo a mia volta. Morale della favola: da ieri sera ad oggi, il 'cattivo ragazzo' che non ama i cellulari e non corteggia le donne (pardon: le ragazze), tanto meno con costanza semestrale, mi ha inviato sette (ripeto: 7) messaggi chiedendomi quando ci rivediamo.
Nonna papera non c'ha più l'età per queste cose, e al terzo sms avevo il fiato corto, la vista annebbiata e le palpitazioni accelerate per il nervoso. Mannaggia, che se ce l'avessi, l'età giusta!
V

giovedì 21 febbraio 2008

L'ombra e il sorriso

E' che le proprie zone d'ombra solitamente nessuno le conosce, e ci fanno anche un po' paura. Ad esempio: io so che non dovrò mai avere il porto d'armi. Soffro di bagliori d'ira rari e totalizzanti che bruciano in un attimo ma mi annebbiano la mente - e dio non voglia che, in un attimo di quelli, mi trovi per le mani un qualunque oggetto contundente o esplosivo. Ma le vere zone d'ombra, in realtà, non le conosciamo nemmeno, e non è l'ira o la paura o la follia, ma il perché di questi stati. Cosa c'è sulla faccia nascosta della luna? Cosa c'è dietro alla furia e alla vergogna e all'angoscia?
Ieri sera parlavo delle zone d'ambra con un amico, e provocatoriamente gli dicevo: io non ho zone d'ombra. Che non averle, in fondo, è come essere solo ombra. Da qualche parte lessi tempo fa una frase bellissima. Diceva: aiutare gli altri è la parte luminosa del controllo. Perché dall'ombra non si scappa, che lei s'annida nelle nostre qualità più fulgide e le riveste di ambiguità. "Io sono buona", dissi quest'estate ad un amico dottore. Lui rispose: "Buono è solo Dio", e da questo capii non che la bontà c'entra con Dio, ma che io non c'entravo con la bontà; che il mio voler essere buona era la proiezione luminosa di una qualche oscurità nascosta. Era il mulinello d'acqua nel fiume - che non lo vedi, e lui t'affoga.
Mi piacciono le persone che sorridono, forse perché io non amo sorridere. Nel sorriso c'è una magia, un'architettura di muscoli denti e labbra che ogni volta mi lascia senza fiato perché il sorriso è una ferita e un'apertura, pelle che si tende e al contempo scioglie, un atto di generosità ma anche ostentazione. Troppo poco siamo consci che il sorriso è la parte luminosa del ringhiare e mostrare i denti, e mi fa paura pensare che lo si possa fingere e lo si possa fraintendere. Fraintendere un sorriso è come precipitare in quel mulinello d'acqua: non te ne accorgi nemmeno - e sei già perso.
V

martedì 19 febbraio 2008

Il Sesso: Dio dei cattolici

Prendo spunto da una polemica sorta tra un 'anonimo cattolico' e 'tutti gli altri', che ho trovato su un post di Metilparaben. 'Anonimo cattolico' sbotta: voi laici siete ossessionati dal sesso! E di seguito: ai bambini le scene di sesso in tv fanno male, li turbano!, che poi ci sono le babygang e lo vedi come va a finire: che tutti violentano tutti, e la colpa è di voi stronzi laici che fornichereste dal mattino alla sera alla faccia dell'innocenza infantile; e poi non rompete i coglioni con 'sta storia dei preti pedofili ché i preti pedofili sono quattro gatti...

Sono cresciuta in una famiglia tradizionale: figlia unica di genitori nati e vissuti nello stesso paese, innamorati da giovani e legati indissolubilmente da un sentimento fatto non solo di amore e passione, ma di dovere e sacrificio e forti ideali. Gli ideali, col tempo, sono diventati principii e i principii, con la maturità e cristallizzandosi, sono diventati dogmi.
I miei sono cattolici, e io sono cattolica. Non praticante. Cosa che per mia madre costituisce un cruccio quasi mortale.
Ho studiato filosofia in un'università cattolica. Un giorno di qualche anno fa incontrai in treno una suora, una di quelle con gli occhi dolci e le guance da scoiattolo. Ad un certo punto mi disse: "La filosofia, il più delle volte, allontana da Dio" e, detto da lei, Dio aveva ancora l'iniziale maiuscola. Ma aveva torto.
Ciò che mi ha allontanato da Dio (Quello lì, Quello istituzionale) non è stata la filosofia - che anzi è modo divino di arrivare a sé stessi perdendosi in mille percorsi e strade e viottoli, foreste deserti e campi - ma l'ipocrisia moralista di chi si dice cattolico: l'università 'cattolica', la gente 'cattolica', gli ideali 'cattolici'.
In realtà non ho mai pensato agli altri in termini di 'laici o cattolici'. Per me è una polarità che non esiste: fallace, scivolosa, allarmante. Credo nell'esistenza dei bigotti, degli atei, dei fondamentalisti di qualunque fede, degli illuminati e delle guide spirituali. Ma l'opposizione tra laici e cattolici, come ogni dualismo, è faziosa, e sputa fuoco dalle narici.

Per la mia famiglia il sesso è sempre stato tabù. Che alla fine è il modo migliore per renderlo Dio, buttando giù Quell'altro dal Paradiso. Quando il sesso è tabù, diventa irresistibile, morboso, attraente. Disumano e divino. E' il divieto - esteso al mondo - dell'Eden da cui 'loro', i cattolici, si sentono esclusi. Gli inacidisce la bocca, il sesso, a quella gente lì, come il cibo vomitato dai bulimici e mai digerito. Il sesso, per loro, non diventa spinta erotica ma rimane allo stadio di compulsione, e senso di colpa, e bisogno di controllo. Perché il difficile, alla fine, è capire che l'erotismo (luminosa e torbida danza in cui il sesso si esprime) racchiude lo spirituale dell'uomo, ne è una via privilegiata, espressione di una vita profondamente carnale e profondamente sacra.

V

lunedì 18 febbraio 2008

L'arte della felicità: continuare a correre

In Donne che amano troppo, la Norwood enuncia una tesi tanto semplice quanto illuminante: per noi donne abituate alla sofferenza, all'insoddisfazione e alle "montagne russe" emotive, ogni altro stato d'animo - specie quelli positivi e sereni - appare estraneo, in-concepibile. Certo, tutte noi vogliamo essere felici e ci rappresentiamo un'idea di felicità verso cui crediamo di voler tendere. Ma in realtà, solo ciò che ci è famigliare e consueto è la nostra norma, è l'unico habitat che non ci spaventa perché meglio di tutti gli altri lo conosciamo e lo sappiamo gestire.
Per una vita sono stata vittima di questa logica implacabile: un'infanzia disastrata, l'adolescenza silenziosa e cieca e sorda di un autismo esplosivo, poi una lenta presa di coscienza tormentosa e a tratti dilaniante come lame aguzze di pugnale. Camminavo rasente i muri per avere appiglio e al tempo stesso luogo in cui nascondermi, o passare inosservata, stavo curva su me stessa reggendomi uno stomaco-anima torturato da ininterrotti crampi.
Per donne così, la felicità è un'arte, e come ogni arte destabilizza e impazzisce coordinate e bussole, crea simboli e forme e significati. Dipinge un mondo, spalanca finestre e abbatte muri, perché dei muri alla fine non c'è più bisogno. La mia felicità di oggi non è nell'aver guadagnato una meta ma in questa corsa lieve e grata, coi polmoni in fiamme e gli occhi spalancati. Che poi la strada è spesso in salita, e si sa. Spesso gli occhi bruciano, e i muscoli anche e la stanchezza è talvolta vile richiamo a fermarsi, a gettare la spugna e tornare a chiudere tutto: occhi, cuore e polmoni.
Finché ti volti indietro e quello che vedi non sei più tu, ma un'estranea che ti fa pena tenerezza, ti spacca l'anima per la fragilità di quelle ciglia che oscurano gli occhi e vorresti per dio vorresti fermarti, e tornare indietro, laggiù, e abbracciarla cullarla, darle tutta te stessa perché il suo sguardo possa aprirsi, e la sua bocca.
E' un attimo, ma decidi di voltare la testa e continuare a correre.
V

sabato 16 febbraio 2008

Dire di no

Alla soglia dei trent'anni ho scoperto di saper dire di 'no'. E' una bella scoperta, che dà un senso di potere vicino all'onnipotenza. I miei 'no' sono detti piano, ché io in fondo sono un animo gentile, ma a volte mi scopro questo sguardo duro negli occhi, una lontananza dalle situazioni che mai avevo provato prima. Sono 'no' che talvolta nemmeno hanno bisogno di essere pronunciati, 'no' che chiudono una tenda su palcoscenici che non voglio calcare, un silenzio o talvolta anche un sorriso. Che vogliono dire, solo e soltanto: no.
Il mio primo 'no': a Effe, che a distanza di mesi pensa che io sia la stessa, gli stessi i sentimenti e la mia dipendenza da lui.
Il secondo 'no': a Silvia, che in una mail mi ha fatto sapere di aver scoperto il mio blog e averlo trovato 'interessante'. Non è interessante, il mio blog: è autoreferenziale, vanesio e talvolta sofferto. Ma mi rifiuto di pensare che sia banale quanto lo è l'aggettivo 'interessante'.
Il mio terzo 'no': a Francesco, alle sue questioni irrisolte, al passato che si ostina a non passare, ai germi di complicazioni, tormenti e passi falsi che mi deviano dal mio leggero (ed egoista) buon umore di queste settimane.
Sì, sono felice di avere la forza per sbattere delle sacrosante porte in faccia. E poi, non appena voltate le spalle, tornare a ridere per tutto quello che invece amo.
V

venerdì 15 febbraio 2008

Fame d'aria (la strada e la morte)

La strada mi ha preso: ho passato giorni camminando, le mani in tasca e l'autismo ormai consueto della gente con l'iPod. La strada mi ha stupito, perché scorreva facile sotto i miei piedi - e non faceva male, e non faceva paura e nemmeno fatica. Felice: a momenti. Uscivo dal cancello del mio palazzo, "quello rosso e basso", svoltavo dalla parte in cui c'era più sole e, per prima cosa, mi accendevo una sigaretta (che la sigaretta all'aria aperta ha un sapore buonissimo). E ovunque dovessi andare, ci andavo a piedi. Mi alzavo presto al mattino: avevo fame d'aria, di strada e di buona musica, bisogno di riempirmi occhi di immagini, polmoni di respiri profondi, e le orecchie di rumori attutiti e batteria. Milano è bella quando decide di concedersi come ha fatto con me in questi giorni. Si è data, si è fatta penetrare e percorrere, e c'era una tale grazia nel suo elegante offrirsi, una tale condiscendente benevolenza che mai avrei smesso di camminarla.
Ma poi ho visto un'altra faccia di Milano la Bella: la strada che fagocita, più affamata - lei - di me.
Le gambe si sono inceppate, la strada non è più stata né facile né felice ma solo sporca e collosa. Mi sono stancata, così, all'improvviso, e ho provato una grande pena: per la città, certo, e anche per la sua impietosa fame di vite.
V

venerdì 8 febbraio 2008

Le mie notti, nel momento

Mi piace scrivere la notte, e questa è una notte particolarmente bella per scrivere. Una notte da Ludovico Einaudi, anche se alla fine ascolto Irene Grandi altrimenti mi immalinconisco troppo, e non è notte da malinconie, questa. Questa notte mi piace perché la abito bene, mi scende giù per i fianchi come un vestito che non fa pieghe, che accompagna sfiora.
Anche ieri è stata una bella notte, e quando siamo entrati al Valerie ci siamo seduti al bancone - e subito ho dato un occhio a me stessa tre anni prima che, là, nell'angolo dietro l'entrata, al tavolo con gli amici... Ma no, che infine era una stagione diversa e gli amici: certi sono gli stessi ma cambiati anche loro, e quelli nuovi vanno e vengono come onde del mare lasciandomi in fondo invariata, come spiaggia di pietra lavica.
Eppure ieri notte, in quell'occhiata a tre anni fa, mi si è dilatato il cuore di un burbero affetto e di un'ancor più scontrosa nostalgia - voglia di ritorno, voglia di afferrarmi, in quell'angolo angusto di spazio e tempo. Afferrarmi in un impeto narcisistico, e baciarmi a lungo e a palpebre abbassate, e un'infinita estenuante tenerezza per me stessa. Ieri avrei preso quella ragazza di 26 anni e l'avrei guardata negli occhi, passando da una pupilla all'altra come fanno gli innamorati arsi di sete.
Mi sono amata, ieri notte, e mi sono lasciata amare, ho deciso di salire tutti i gradini di quella soffitta, uno per uno. E ho vissuto qualcosa che la bella e insicura ragazza di tre anni fa non avrebbe saputo vivere, e avrebbe vissuto in maniera vorace e complicata (scalando abissi quando la superficie è tanto vasta e tanto profonda). E' successo che sono stata bene, nel momento, e in prospettiva. Mi sono messa seduta: ho appoggiato il mento alle ginocchia piegate, sistemandomi gli occhiali sul naso. Poi ho appoggiato la guancia alla gamba e l'ho guardato di traverso per un po', quasi a lungo. Non c'era nulla che mi disturbava in quello che vedevo, nessuna domanda e nessun rovello, niente razionalismi, e nemmeno asperità o durezze o paure.
Alla fine, mi sono scoperta che sorridevo.
V

giovedì 7 febbraio 2008

Un "nuovo" comandamento della ragione: Heidegger

Venerdì 20 marzo 1998, La Stampa pubblicò un breve articolo intitolato Il filosofo della mutua in cui si dice che, laddove hanno fallito psicologi e psicoterapeuti, può benissimo riuscire un filosofo: problemi di cuore o pratici, assilli, drammi interiori, insicurezze e coscienze zozze; moniti leggi morali e liste della spesa. Il filosofo, insomma, sarebbe una sorta di Tavola della Legge prêt-à-porter, un bignamino dell'anima. L'onnipotente dio della ragione, ai miei occhi di diciottenne.
Dieci anni fa andavo in sollucchero per notizie come questa (sottolineavo intere frasi, ritagliavo i giornali, archiviavo e, sospirando, sognavo il mio futuro): non per niente, decisi di studiare filosofia. Con gli anni - e un minimo di prospettiva - ho dato una calmata ai miei bollenti ideali adolescenziali di rivoluzione e guarigione del mondo, per accoccolarmi sul più disilluso ma concreto monito del Candide: bisogna coltivare il proprio giardino. Che poi, se hai un giardino che dà sul mare, c'è ancora ampio spazio per i sogni...
Fino ad oggi. Cercando un riferimento bibliografico, mi sono capitate per le mani le lezioni universitarie di Heidegger a Friburgo (1931/32). Bel libro compatto, color ocra e liscio, tutto sottolineato. In fondo ad una pagina, vedo che ho scritto: "Bello!", allora sono andata a rileggere, e ho sorriso.
Mi è venuto in mente Il filosofo della mutua, e ho pensato: ho sottovalutato quella ragazzina diciottenne che credeva che la Ragione potesse indirizzare, raddrizzare e aizzare gli animi ad una sana presa di coscienza. Guarda qua, leggi cosa scrive Heidegger, e dimmi tu se non è il comandamento che - oggi - deve guidare le nostre vite e le nostre scelte. Sì, mi sono risposta, è così.

La vostra comprensione [delle cose] non dipende in primo luogo dal fatto che comprendiate male, per nulla o in modo eccellente, e nemmeno dal fatto che abbiate una maggiore o minore conoscenza delle dottrine filosofiche, ma soltanto dal fatto che ognuno di voi, per sé, abbia esperito o sia pronto a esperire la necessità di essere qui ora, nel fatto che in ognuno di voi parli qualcosa di ineludibile e lo reclami a questa storia. Senza di questo tutta la scienza rimane solo un addobbo e a maggior ragione tutta la filosofia soltanto facciata.

V

Dolcezza di un sole chiaro (unire i puntini)

Dolce, e stanca e sfiancata di sensazioni, mi rintano per un po' dentro di me, e decido di non uscire. C'è un bel sole e un bel vento, oggi, e stamattina mentre guidavo mi sono sentita come un'adolescente che bigia scuola: con quel sole che mi scaldava la faccia, e il vento dal finestrino che faceva svolazzare la cenere in giro, ero mezzo nell'aria e mezzo inchiodata a terra. Futile ma radicata, concreta e coi pensieri spettinati.
Ci sono giorni in cui non sorrido e non mi va di farlo. E giorni come questo, in cui è la dolcezza che forza le labbra a schiudersi, e gli occhi si striano di un battito lento di ciglia.
In questi giorni ho ripensato ai miei ultimi dieci anni: a Praga, la magica e bella e stanca di notti nebbiose; al 1° maggio polacco quando ero in piazza a Varsavia per festeggiare l'ingresso della Polonia nell'Unione Europea; alle ultime ore delle mattine di Liceo, un senso esausto di cervello in fumo e declinazioni latine. E mi è capitato di pensare: c'è un ostinato residuo di felicità in tutto questo. Ho rivisto la mia vita in prospettiva, ho "unito i puntini", come disse Steve Jobs in un celebre discorso. Dà un senso di completezza guidare la mattina, col sole e una sigaretta accesa, costeggiare il mare e al tempo stesso unire i puntini e intravedere il disegno, la trama che essi svelano. E' un bel sentire, davvero. Un sentire che placa.
V

martedì 5 febbraio 2008

Del gioco e della paura

Dire che un uomo è pittore, fa il pittore, dipinge: è una cosa seria, non è vero? L'uomo dipinge, compone musica, scolpisce, e sono tutte attività serie, serissime, ma in realtà sono giochi di adulti, adulti che continuano a giocare e giocare, come la mamma che dice al suo bambino: "Finisci il disegno prima di cena" per toglierselo dai piedi almeno cinque minuti. E l'adulto gioca, per rimandare di altri cinque minuti la morte, il futuro, domani. Che domani, chi lo sa, potrebbe rompersi il giocattolo. Eppure lo facciamo tutti, di rimandare la morte in un modo o nell'altro.
Un uomo mi ha portato in una soffitta: era scura e bassa, con una finestra a mezzaluna che dava sulle luci della città di notte. Mi ha fatto salire le scale a chiocciola, senza toccarmi senza sfiorarmi. Sul soppalco un letto blu, il cuscino dava su un'altra piccola mezzaluna dorata e le pareti erano spoglie. "Volevo solo farti capire che, se vorrai, ci sarà questa possibilità", maniera splendida per dire e non dire.
L'ho fatto fermare sul penultimo gradino, gli ho messo le braccia intorno alle spalle, appoggiandogli la testa sopra. Anche un gradino più in basso, riusciva ad essere più alto di me e in quell'altezza mi piaceva perdermi, anche se non del tutto, che non era il momento, e chissà se lo sarà mai. Poi ho ripensato a quel letto tutta la notte, e per tutta la notte mi sono chiesta perché non ho voluto giocare, le fantasie alla fine sfibrano, e anche le parole e anche i sensi logorati sfibrano, alla fine. E quando ne abbiamo parlato, davanti a un bicchiere di vino, lui ha detto "Sei tanto intelligente che a volte sfiori la stupidità" e ha disegnato un cerchio con le dita della mano come a dire: gli estremi si toccano, e poi mi ha toccato, baciandomi lieve i polpastrelli.
C'è qualcosa, del gioco, che fa paura. Gadamer l'ha colto con esattezza, dicendo che il gioco è qualcosa di tremendamente serio, nel gioco è "in gioco" l'essere autenticamente uomo: giocare è una roba da grandi.
E in quella soffitta non mi sono voluta mettere in gioco.
C'è stato un abisso profondissimo che non ho voluto guardare, su quel letto blu scuro. Ho lasciato i miei occhi sui suoi cuscini bianchi, rotondi, belli, e talmente giocosi, talmente allegri... giocosi e belli e allegri fino allo spasimo. Per quello spasimo ho dovuto chiudere gli occhi, e affondare il viso sulle sue spalle.
La cura delle emozioni sfibrate e logore è solo nei gesti precisi e senza scampo: ma la mia testa riesce sempre a trovare una via di scampo, e affama il mio corpo, lo punisce, lo stanca. Ho un corpo ludico e una testa impietosa e tiranna, figlia e ostaggio di una paura panica e totalizzante. Ha ragione, quest'uomo. Il cerchio si chiude, tutto alla fine si rivela nel suo opposto, e ci sarà infine una battaglia che la mia testa perderà: per sfinimento.
V

lunedì 4 febbraio 2008

Il peso dei libri e il Paradiso dei topi

Per me nei libri c'è qualcosa di magnetico. Hanno una dimensione, un odore, un peso, una consistenza - lo sa bene Silvia alla quale un giorno di tanti anni fa, durante un'ora di lezione, tirai addosso il libro di letteratura greca (copertina rosa rigida e 760 pagine di papier velouté): colpii il muro, ma lei scappò lo stesso dalla classe piangendo. Forse avevo esagerato.
So che sembra strano, ma è un ricordo che ogni volta mi fa ridere, sempre, risate di pancia, allegre. Penso a lei - tenue, delicata ragazza dagli occhi chiari e la pelle diafana - seduta vicino al muro con fare educato e composto, ed io, alla sua sinistra, imbestialita e schiumante, che - non riuscendo ad aver ragione di lei - scelgo la Via della Violenza a quella del Dialogo, agguanto il malloppo rosato e glielo scaglio contro, mentre le sue pupille si dilatano per lo stupore e, forse, la paura.
In classe cala un silenzio da fiato sospeso, e il mio buon vecchio professore di filosofia, vedendo Silvia prendere rapida e congestionata la porta dell'aula, mi osserva divertito da sopra gli occhiali e cantilenando chiede: "Valentina, cosa le hai fatto stavolta?" Io, come risposta, mi guardo la mano ancora lorda del reato commesso, raccatto il libro finito a terra, alzo le spalle e non rispondo, immusonita.
Non ho idea di cosa mi faccia ridere, in questo ricordo: forse pensare che il prof mi voleva bene davvero (e mi capiva), forse la quieta dolcezza di Silvia, o com'ero io allora e come eravamo, oppure il libro di greco in sé, un mattone di dimensioni clamorose, o quant'ero litigiosa e furiosa e viscerale - e quanto la amavo. Certo, litigavamo spesso. Io ero una rompicoglioni (e qualcuno opinerebbe che la sono rimasta): intransigente, tignosa, aggressiva. La Silvia, a modo suo, aveva una qualità dura, ed una natura fredda e pungente. Ne uscivano scintille, e quando eravamo nel bel mezzo di una tenzone verbale (ricordo soprattutto quelle davanti a scuola, sul portone d'ingresso) io allungavo il collo e scuotevo la testa "come un gallo da combattimento" - mi disse un giorno mia madre. Da quel momento, smisi di litigare per strada.
C'è tutto un mondo, dentro i libri. Per questo non li impresto e non li regalo, e sono gelosa anche che qualcuno possa toccarmeli, aprirli, farci pieghe non mie, seminarli di frammenti epiteliali estranei.
Quel libro di greco, ad esempio, è lì. Con la sua rilegatura spessa, gli appunti ordinati, il piccolo topo disegnato a matita da Silvia vicino al capitolo: "il Ratto delle Sabine", o forse quello era il manuale di Letteratura Latina, non so più non ricordo. Ma da qualche parte, nei miei libri del Liceo, c'è questo topino minuscolo e orecchiuto, con una bella codina grigia e lunga e le zampine agili, che da un decennio almeno sta vagando - ingordo e curioso - tra le pagine di un libro. E ci dorme, tra quelle pagine, ci pascola, ci cresce, si nutre e ammazza il tempo, gioca all'interno di una "o", ci dà di fioretto con le "p", guada fiumi costruendo ponti di "m"... Una bella vita, la sua, immortale e lieve, affollata e però silenziosa. E' nel suo paradiso: che è il mio paradiso, o come vorrei che fosse.
V

venerdì 1 febbraio 2008

Rincorrendo il tramonto in autostrada

Stasera sono stanca. O meglio: spossata. Una spossatezza che mi è entrata nel cervello, nei muscoli e nell'anima tutta. L'altro giorno, sull'anima, mi stava il mondo intero. Stasera no, stasera c'è solo un gran deserto. Sono io, e i miei libri e l'assenza totale di ogni stimolo (né musica, né corpi, né chiamate - che ho spento ogni contatto con l'esterno). E' come una giornata quando muore: quell'ora intima in cui si perde il senso delle cose fatte e ancora non si progetta il domani. Un'ora strana, in verità. In cui sarebbe bello essere in treno verso ogni dove, o viaggiare in una macchina silenziosa che rincorre il tramonto in autostrada.
Ne ho fatti tanti di viaggi così: momenti in cui si crea una strana alchimia con l'esterno che si proietta con brama centrifuga contro i finestrini, e il di fuori fugge in macchie scure di case e industrie e cemento mentre gli alberi schizzano come scarabocchi rapidi fuori dagli occhi. Ne ho fotografati decine di viaggi così. Tutti fotogrammi della mia vita che tentava di raccontarsi, quando viverla diventava struggente in maniera insopportabile.

Ora basta. Rimando ogni cosa a domani, che stasera è buona solo per dimenticarsi.

V

L'essenza dell'erotismo

Parlavo con un amico, stasera, e gli spiegavo un concetto che in questi giorni mi ha stordito nella sua evidenza. Gli dicevo: ho iniziato a scrivere un romanzo, è un romanzo di dolore, una storia atavica e sempre uguale, in cui si parla di un'infanzia piagata e distrutta; ma mi sono resa conto, scrivendo le prime pagine, quanto parlare di vita e di morte e di dolore sia in fondo parlare di eros, di istinto, correnti, passioni, fuoco che marchia la pelle e pulsa, di voglia e piacere e desiderio e ansia di essere colti di sorpresa, presi di spalle e messi al muro. Senza via di scampo.
C'è una superficie profondissima in un corpo, un calore agghiacciante, un perenne rabbrividire di sensazioni che chiedono di essere rivoltate: portate alla luce e nascoste in nerissimi abissi. Il nostro corpo pretende di essere svelato e violato, di essere usato e consumato - e l'anima - dimenticata. Che l'anima dimora nella pelle più che altrove, perché è proprio ed esattamente e solo nella superficie che splende una profondità senza fine.

La vita: un ansimo.
Ed è a quest'ansimo che si deve la vita.

V