lunedì 7 gennaio 2008

Mara. Le amicizie fragili parte I

In un paio di precedenti post ho scritto di rotture, di un'amicizia decennale che non ha resistito al tempo, ai cambiamenti, all'attrito rumoroso di caratteri troppo diversi e diverse sensibilità. Forse un giorno riuscirò a parlare di Silvia, non ora. Non ancora, benché siano ormai passati secoli da allora. Ma nel primo post che scrissi, ed è già quasi un anno, parlavo di Mara, di un viaggio a Praga e di carta assorbente. Di quel viaggio ho ricordi miracolosi, e anche ad essi, un giorno forse, dedicherò tempo e parole. Era il 1999, si usavano ancora le macchine fotografiche tradizionali - quelle coi rullini, quelle che non sai se le foto vengono bene o no, e ogni volta è una sorpresa. Mara aveva i capelli cortissimi e biondi, un sorriso fiducioso e aperto, occhi meravigliosamente chiari. Ricordo di un pomeriggio caldo e sfiancante; eravamo sdraiate sugli scalini di una qualche chiesa e sicuramente i miei piedi erano congestionati e gli occhiali da sole mi facevano sudare il viso. Mara aveva iniziato a raccontare barzellette a ripetizione: mi facevano male gli addominali, dalle risate. Perché Mara - prima che la vita la indurisse - era simpatica, di una simpatia timida, a volte aggressiva, talvolta seducente nella sua infantile ritrosia. Era tutta una scoperta.
Ho ancora in mente il fotogramma della prima volta che la vidi, nella grande aula a pianterreno della sede di Sant'Agnese. Aveva un giaccone sui toni dell'azzurro e una borsa tracolla. Paolo ci presentò apostrofandomi acido: "Fosse per te, non conosceremmo nessuno, qui". In questi anni Paolo si è fatto prete, e devo riconoscere che già allora possedeva meravigliose qualità di caritatevole fratellanza cristiana. Lei mi era apparsa molto sicura di sé, a suo agio, e la sua stretta di mano - una mano bella, lunga e nervosa - era forte.

Non so cosa sia accaduto in questi ultimi anni dopo l'università, che cosa ci abbia allontanato al punto da decidermi di mettere fine ad un'amicizia che non mi disturbava, non mi invadeva e spesso mi consolava. Se un percorso c'è stato, si è perso nella memoria del tempo, in questo rapporto fatto ormai di tantissime telefonate e pochi incontri - la lontananza, gli impegni, incastri mancati. Forse in dieci anni quello che mi ha allontanato e ferito è stato rendermi conto che lei, nonostante le molte parole le continue confidenze, mai è riuscita ad aprirsi con me, mettendo se stessa realmente in gioco.
Un pomeriggio di pochi anni fa eravamo sedute ad un tavolino del Caffè Litta (ci passavamo ore e ore sempre ogni giorno, a intessere un dialogo che non trovava mai soluzione di continuità, un ad libitum di parole e scambio emotivo). Mi sentivo a tal punto vicina a lei, plasmata da giornate intere trascorse insieme, da credere di poter sfiorare la sua anima sfondando al tempo stesso il suo ultimo baluardo, quello della sua più reticente difesa interiore. Iniziai a dirle quale potesse essere, secondo me, il motivo di alcuni suoi disagi e con cautela, con la consapevolezza che per la prima volta mi stavo addentrando nel più sacro dei territori - l'intimità, provai a parlarle di lei. Di come la vedevo, e di quali esperienze emotive avessero potuto spingerla ad essere talvolta così rigida, così corazzata, così impaurita...
Chiaramente il discorso mi rimase strozzato in gola. Lei, dopo le mie prime parole, abbassò lo sguardo e con voce dura replicò: "Non ne voglio parlare, e non voglio sapere niente".
Questo, credo, fu il requiem della nostra amicizia. Con questa frase, secca, Mara cristallizzò il nostro rapporto a quel che era, senza possibilità di dargli un'evoluzione, un di più o un di meno di prossimità. Ma ciò che è peggio è che gli anni hanno trasformato quella che era spaventata fragilità interiore (che mi sarebbe piaciuto osservare e accudire e prendere tra le braccia) in fastidiosa arroganza intellettuale. Quel "no" che tanto tempo fa aveva delimitato un terreno e piantato paletti, con gli anni è diventato un "io" smisurato e accentratore che dalla sua prospettiva cancella gli altri per meglio preservare se stesso. A Budapest non sono riuscita, mea culpa, a vedere "la" Mara dietro questo io. Non ne ho avuto voglia, lo ammetto, non ne ho nemmeno avuto la forza: al suo primo attacco verbale ho tagliato la corda, ho messo un veto e chiuso la porta. Vilmente, ma anche con coraggio.
Ora mi è rimasto solo un velo di nostalgia, il dubbio di aver fatto una cazzata e il rimpianto di non essere un'amica migliore di quella che sono.
V

2 commenti:

Anonimo ha detto...

Non darti colpe che non hai. Uno dei primi e più forti insegnamenti che mi furono dati fu' "Non si può aiutare chi non vuole essere aiutato".
Spesso siamo noi, piuttosto, ad essere egocentricamente - e erroneamente - convinti di poter aiutare chiunque... ed è giusto tentarlo, ma quando ci si accorge di sbattere contro un muro, è davvero inutile insistere.
O alla fine a farsi male saranno in due...

My funny Valentine ha detto...

Già, non ci avevo mai pensato... Il fatto è che, egoisticamente come dici tu, non volevo tanto "aiutarla" quanto dare una chance a quell'amicizia, renderla davvero intima, davvero profonda. Non una chiacchierata, non un modo (piacevole) di passare del tempo assieme, ma una comunione di anime belle.
Non ci sono riuscita, non mi è stato permesso, non so. Il risultato, comunque, è stato molto deludente, e mi ha lasciato l'amaro in bocca.
V