giovedì 10 gennaio 2008

Silvia. Le amicizie fragili parte II

Nessun uomo mi ha mai fatto il male che Silvia, con un solo sguardo gelido dei suoi occhi verdi, è riuscita a farmi un giorno. Sono quattro, forse cinque, gli anni che non ci vediamo. E molti mesi, forse anni, che non ci sentiamo. Non mi manca, non più ormai, e forse una parte di me la odia ancora, e un'altra parte sicuramente la ama come quindici anni fa quando, passeggiando assieme per i corridoi della scuola durante l'intervallo, sentii, con un brivido alla schiena che da allora non ho mai più provato, sentii proprio e precisamente quel brivido di commozione e adrenalina che sale: l'eccitante e vertiginosa sensazione di aver trovato l'anima gemella, il diamante per la mia montatura e l'impalcatura delle mie fragilità. Per me lei era bellissima. La guardavo durante le lezioni, ed era perfetta.
Di lei, ancora oggi, saprei dire molte cose: che quando sbadiglia gli occhi le si riempiono di lacrime, che la sua apple pie è la più buona che potrete mai assaggiare, che è pulitissima ma il suo astuccio era un covo di malattie infettive, che si vestiva come piace a me e aveva una pelle che faceva luce. Di lei conosco l'odore della sua pelle e come dorme. La consistenza dei suoi capelli. So che mi scostava le coperte dal letto la sera quando uscivo. Conosco la sua precisione, il suo orgoglio e il suo puntiglio nel fare e rifare le equazioni. Io me ne sono sempre sbattuta i coglioni, lei mai. Ricordo di tutti i pomeriggi al telefono, di quella volta che volevo facessimo insieme una versione di latino e, benché a lei non andasse, la costrinsi; quando ci vedevamo "alle sei e un quarto da Arca" e lei era sempre un paio di minuti in ritardo; e di quando in Grecia la figlia di un nostro professore ci chiese, con incantevole accento d'ingenuità: "Voi due siete amiche del cuore?" e io la fissai per sentire dalla sua voce il suo "Sì", e dentro di me vibrare.
E, purtroppo, nemmeno riuscirò a dimenticare di quando una sera, in un locale con amici a Milano, lei sbatté in modo petulante la mano sul tavolo proclamando "Al centro dell'attenzione adesso voglio esserci io", così come non dimenticherò il veleno che il giorno del mio ventiquattresimo compleanno lei e Giacomo mi sputarono addosso con rabbia. Dopo quel giorno, il buio; una lunga, sofferta dissolvenza che mai finirà perché mai perdonerò. E mai capirò perché non so, e non voglio sapere e nemmeno ricordare. Quel giorno, tutto si ferma alle mie lacrime che scendono a grossi grani nella zuppa che stavo mangiando, mentre lei mi accusava di qualcosa che non so e non voglio né sapere né ricordare. Come dopo un incidente, un tradimento scoperto, uno choc: non si sa più cos'è successo davvero, chi ha detto cosa, in che modo sono andati i fatti, o perché si è arrivati a quel punto.
Eppure ci siamo arrivate, ed è stata la mia sconfitta più grande.

In camera di Silvia, nella vecchia casa quella che mi è cara, c'era una fotografia attaccata alla parete sopra il letto. Era un suo primo piano: lei ride voltandosi all'improvviso verso l'obiettivo, i capelli neri seguono il movimento del corpo con un lieve odore di brezza.

V

1 commento:

Anonimo ha detto...

Complimenti per il tuo blog, scrivi in maniera veramente bella.

Il tuo stile è fluido e mellifluo ed è un piacere scorrere le tue parole mentre descrivi le tue emozioni.

Non ti nascondo che fa un certo effetto sentire i tuoi racconti...