venerdì 9 novembre 2007

La cattedrale dell'anima (L'Idiota)

Sono giorni che mi aggiro nella mia anima con veneranda sacralità. Ho dato un addio e salutato un buongiorno. Mi sento elettrizzata, ma soprattutto ribattezzata.
Fino a poco tempo fa Cioran era il mio mentore, e il mio sogno Pessoa: la cupa dissacrante e onanistica smania iconoclasta del primo arricchita della sontuosa nostalgica malinconia del secondo. (E non parlo di cucina...) E se Tolstoj mi aveva quasi, di contro voglia, catturato per la limpidezza delle immagini e la potenza creativa, Dostoevskij rimaneva il mio gemello di spirito: personaggi travagliati affannati e scapigliati, caratteri in limine, storie tirate allo spasimo come la nota del violino più virtuoso... insomma: spazzavo strade sporche, ma strade belle. Mi aggiravo dentro me stessa come nell'androne di certe vecchie case milanesi che nel periodo del censimento avevo imparato a conoscere così bene: buie, irregolari di scalini e pericolanti di corrimano. Mi piaceva, ma la polvere che respiravo mi soffocava.
In quel periodo - l'inverno 2001 - avevo letto L'Idiota. Non ricordo che un libro mi abbia colpito tanto, né che mi abbia provocato un simile senso di immedesimazione quasi carnale: l'idiota ero io, accidenti! Mi piaceva specchiarmi in quello specchio, guardarmi in quegli occhi da epilettico e saggiare la mia impotente virtù nell'irritante buon cuore di quel principe. Non ero la sua Nastas'ja Filippovna; ero il suo doppio. Ero lui, ma senza il finale tragico. Ero l'ombra che lo avrebbe difeso da se stesso. Un'idea che neanche Don Chisciotte avrebbe mai osato pensare nei suoi vagheggiamenti cavalleschi tra sontuosi sogni e miserrime realtà. Una commozione fino alle lacrime, quel disgraziato spagnolo!
Mettiamola così: ero per Myskin quello che, anni dopo, avrei scoperto in Gogol'. Ero il cappotto rubato dal fantasma di Akàkij Akakièvic: la realtà di un poveraccio morto di freddo, contro la fantasia consolatoria di un fantasma ben pasciuto. Insomma, ero un finale sbagliato al momento sbagliato, e persino dell'autore sbagliato.
Ero un gran casino.
Oggi c'è questa magnifica cattedrale che pulsa, legnosa e odorosa, e vuota, dentro di me. Mi sembra di vederlo, il pulviscolo assolato che penetra dalle vetrate, vetrate bianche, diseguali, appena polverose e forse anche unte dal tempo. Cavalco l'onda di quel raggio di sole, e mi immagino il naso freddo e rosso delle mattine d'inverno, quando andavo all'università e alle 8 mi rintanavo in chiesa per chiedere la grazia di ritrovare una vocazione persa, quella allo studio. Le mattine erano talmente belle, quei giorni... Abitavo all'esterno quello che ora scopro al mio interno: solennità, intimità e speranza. Serietà.
Perché alla fine, dopo anni di consuetudine e frequentazione, mi ritrovo a pensare che Cioran non fosse serio, ma solo severo. Una severità splendida, ma irrancidita dall'abuso. Una straziante desolazione di chiesa diroccata e dimenticata. Ma, come disse qualcuno, Cioran aveva le chiavi per aprirsi le porte del paradiso, e non ha mai voluto usarle. Io mi sento oggi ben salda dentro la mia cattedrale. E' un'impressione, una sensazione; probabile che domani la cattedrale si riveli un miraggio, una diapositiva proiettata sulle pareti della speranza e del rinnovamento.
Ma il bello dell'oggi è che esiste solo oggi, e non chiede nulla. O forse il conto mi arriverà domani, e domani è un punto di fuga che si allontana all'infinito.
V

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