venerdì 16 novembre 2007

Radici

C'era una volta una villetta in Illinois, bianca, col patio e un simpatico cagnone americano. Quella è mia nonna, la piccoletta col cappello scuro e in groppa al cane. Quella grande è mia prozia, morta nel 1990 giusti giusti, e nota per aver salutato gli Stati Uniti a 17 anni urlando dal parapetto della nave "Goodbye my country!", unica frase anglofona che per decenni, con fascino di leggenda, ha circolato nella mia famiglia anglofuga. Fino a che, un anno fa, decisi di prendere lezioni e abbattere un generazionale tabù familiare, la nostra personalissima maledizione: la riottosità all'inglese, l'oblio coatto, la pronuncia obbrobriosa...
Forse perché sono figlia spuria della mia famiglia, ma con l'inglese fin dall'inizio me la sono cavata benino; e siccome sono accidiosa a livelli che Dante non riuscì nemmeno a concepire nonostante la sua poderosa capacità immaginativa, dopo un anno ho deciso di mollare tutto e passare al russo per leggere Dostoevskij in lingua originale.
E comunque mia nonna (nata madrelingua anglo-italiana) dell'inglese non ricorda una sola sillaba, e non solo ora che ha 96 anni, ma a memoria d'uomo, una volta tornata in patria, dell'inglese non ha più pronunciato nemmeno una parola, facendo istintivamente tabula rasa del suo passato.
Suo padre in Illinois stava per lasciarci le penne una sera quando, nel saloon che gestiva nella città di Mark, un tizio ubriaco gli piantò una pallottola nel costato - con la quale serenamente morì, vent'anni dopo, nel suo letto a Villa Viani. Pare che il bisnonno prese la decisione di far tornare in Italia moglie e figlie non tanto per la pericolosità della città o per la strizza seguita alla pistolettata (anzi, in merito non si ha alcuna testimonianza, il che permette di concludere che il nonno di mammà fosse un tipo tosto), ma perché la figlia grande, la prozia Zenaide, era quasi in età da marito e - si diceva il brav'uomo - se si sposa in America la famiglia si disperderà per sempre. Al bisnonno l'idea di diventare una famiglia di immigrati qualunque in uno Stato qualunque di un posto qualunque del mondo, per di più oltreoceano, era indigesta. Dopo quasi vent'anni trascorsi a Mark, un bel gruzzoletto messo da parte e due bionde figlie con calze di nylon e parlata inglese (come si illudeva, poveretto!), tornarono tutti a Villa Viani, dove nessuno è una schiena o un volto o una professione ma dove tutti sono "qualcuno". Poi, sistemata la famiglia, tornò negli Stati Uniti a lavorare nel suo saloon per altri sei o sette anni prima di fare il definitivo ritorno a casa.
Purtroppo non ci è dato sapere che abbia combinato in quegli anni, da solo. L'unica leggenda circolante in famiglia è quella di un sant'uomo, "meschinetto" (lacrimoso vezzeggiativo, giammai offesa!), che per garantire benessere ai suoi aveva sacrificato gli ultimi anni della sua vita lontano da casa. Spesso ho sentito mia madre o mia nonna sospirare, con sguardi da Vergini Trafitte, "quanto dev'essere stato difficile per lui!". Ed io, senza nulla voler togliere a quello che di vero c'è in tutta questa faccenda del pendolarismo America-Italia e Ritorno, amo pensare che laggiù il bis-nonno abbia ogni tanto anche fatto bis-boccia: alla sua e anche un po' alla mia; perché mi piace ricordarlo e immaginarlo e dipingerlo e descriverlo come se fosse un grosso e austero ritratto ottocentesco: cupo, rigido nel suo vestito nero da borghese per bene, ricoperto da una patina polverosa e spessa, la bocca tagliata in un ghigno severo, le mani rugose strettamente intrecciate sul davanti e, dietro, una piccola, rossa e lucente codina da diavoletto simpatico e ammiccante spuntare a insaputa dal Resto della Famiglia...
V

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