Ogni domenica, per anni, Piera e Luccio (in realtà Carlo, divenuto Carluccio da cui Luccio) sono venuti a casa nostra per passare il pomeriggio insieme. Io ero in quell'età di mezzo che mi faceva odiare la mia pelle: portavo spessi occhiali da vista, l'apparecchio per i denti e mi sentivo un mostro. Probabile che lo fossi, anche (ma non ditelo a mia madre). Luccio era un bell'uomo, più affascinante che bello, alto, il naso curvo e appuntito, la parlata milanese e i lunghi capelli brizzolati. In inverno portava un trench in pelle nera, sciarpa bianca e jeans scuri da ragazzino: avresti detto, a occhio, che aveva un harem di amanti attorno a sé. Avresti detto che la sua vita era eccitante e smodata, che il mestiere di architetto gli calzava come un guanto, e che - agli occhi di un'adolescente in crisi - Luccio fosse il simbolo di tutto ciò che è grande, di ciò che è al di là della staccionata.
In realtà, di amanti non ne aveva mai più di una per volta (storie solitamente lunghissime, una sorta di ostentata bigamia), il lavoro stava iniziando a scarseggiare, e beveva. Forte. Una bottiglia di whisky in un pomeriggio, per intenderci. Quando se ne andavano, vedevo gli sguardi tra i miei genitori: erano sguardi di ansia, e una ruga verticale gli attraversava la fronte. Chi se ne frega del whisky, diceva la ruga (gliene compravano ogni settimana uno nuovo, di lusso, e solo per lui). Luccio è l'amico della maturità, Luccio e Piera sono la coppia delle crociere, del progetto della casa nuova, dei battesimi, delle telefonate di notte, delle feste patronali di paese, delle scampagnate. Ma Luccio si secca una bottiglia in un pomeriggio, e poi se ne tornano a casa. Un bacio al mostriciattolo occhialuto di casa, e si mettono in macchina. Quanto potrà andare avanti, in questo modo?
Ogni domenica Luccio si sedeva al tavolo quadrato del tinello (questa casa l'hanno progettata loro, questi archi del salone, le scale sospese e curve, il marmo ovunque e la commistione di stili), col bicchiere e la bottiglia davanti, e mentre mamma e Piera parlavano di lavoro, di come procedeva la ristrutturazione dell'albergo, delle figlie e dei vecchi di famiglia, Luccio mi parlava di Tagore, mi citava versi e poesie scrollando i suoi lunghi capelli, mi metteva una mano sul braccio e mi diceva: "Prometti che lo leggerai!", e io promettevo. D'altra parte la maggior parte dei libri che leggevo me li regalavano loro, a botte di venti, trenta per volta. Erano ricchi, e terribilmente infelici.
Mia madre ha sempre detto che Piera e Luccio, sulla carta, erano perfetti insieme: entrambi architetti, estrosi e anticonvenzionali, belli, innamorati e pieni di idee. Erano loro, erano "la" coppia, che mai avrei potuto pensarli scissi. Eppure, continua mia madre, mai ha visto una coppia peggio assortita di loro: hanno passato la vita a farsi lo sgambetto, a mandarsi a cagare, a fare e subire le corna, e poi tornare sui propri passi. Si sono scontrati, urlati, amati e perdonati; si sono lanciati oggetti contro e insieme hanno costruito palazzi; hanno fatto due figlie, e mai una volta che si siano trovati d'accordo sul come educarle... Si sono ignorati per anni. A tratti, guardarli mi faceva stare male per la violenza e l'ostinata precisione con cui quei due - pur amandosi - si erano rovinati la vita.
Un giorno, dopo l'ennesimo tradimento sbandierato, Piera ha dato fondo a tutta la sua incurante pazienza. Ha sbraitato, ha distrutto i piatti della cucina, poi - l'ha cacciato di casa. Luccio, dopo questo fatto, ha iniziato a venire da noi sempre più spesso: confabulava coi miei, bevendo a sorsi piccoli e vicini. Le ultime volte mi guardava e mi diceva: "Diventi sempre più bella, come quelle là...", e indicava qualche ragazza in televisione. Rideva perché vedeva che arrossivo, e che il complimento mi faceva piacere. Lui, invece, diventava sempre più ascetico, whisky a parte: era appena entrato nella sua fase mistica, gli prestavo i libri di S. Agostino e Pascal, voleva leggere la Summa Theologiae ed ammattiva per la Commedia di Dante. Si era messo in testa che avrebbe di nuovo conquistato la sua Piera, che l'avrebbe nuovamente fatta innamorare di sé, come i primi temi, quando si erano conosciuti al Politecnico di Milano. Le avrebbe fatto recapitare a casa tutti i giorni, ogni giorno che dio avesse mandato in Terra, una rosa rossa con il biglietto "Un uomo che ti ama, sempre"; tutti i santissimi giorni dell'anno. Fino alla morte.
Quattro anni fa, intorno al Natale, Luccio era in macchina che vagava senza meta (infelice, io credo. Senza speranza, senza futuro, e coi sogni ormai a brandelli, lasciati per troppo tempo a macerare nel whisky). Certo, Piera l'aveva perdonato, avevano ripreso ad abitare insieme e lui finalmente aveva detto addio alle amanti. In compenso studiava con ossessiva monotonia i testi sacri, aggiungendo mania a dipendenza. Ogni giorno, puntuale, per Piera arrivava la rosa rossa dal gambo lungo, e per Luccio era come un voto, un rintocco che rammemora, l'ultimo tentativo di sentirsi qualcuno. Finché quella vigilia di Natale un malore, qualcosa, gli aveva fatto perdere il controllo dell'auto, ed era morto prima ancora di schiantarsi contro il muro.
Le rose continuarono ad arrivare per qualche giorno, poi smisero, svanendo come la scia di un motoscafo, come una nuvola, come un'immagine luminosa sulla retina: un'ombra che resta lì, ferma, ancora per un istante, un momento solo, e infine evapora, leggera, lasciando gocce di sudore sulla pelle. O lacrime, forse.
V
lunedì 17 dicembre 2007
Luccio, una rosa al giorno
Etichette:
Storie famigliari
Iscriviti a:
Commenti sul post (Atom)
3 commenti:
Questa storia è molto bella. E poi, hoh un debole per le storie familiari :)
Il finale, con le rose che continuano ad arrivare per qualche giorno e poi si fermano, è da brividi...
Non so' che dire quando leggo storie come questa... Oggi forse dopo un mese la loro relazione sarebbe stata interrotta per sempre; loro invece scelsero di portarla avanti fino alla fine... Chissà chi ha ragione? Forse non c'è una ragione. Certamente entrambe le scelte vanno comunque rispettate...
Questa storia non sarebbe nemmeno esistita se loro avessero deciso di rompere. E la poesia di quelle rose che continuano ad arrivare non ci sarebbe mai stata... Per me, nella mia testa e nel mio cuore, le rose continuano ad arrivare ogni mattina, perché lui è quelle rose.
V
Posta un commento