domenica 30 marzo 2008

Tipi da (non) aMare. Parte II

Come anticipato martedì scorso, eccoci alla Seconda Parte dei Tipi da (non) aMare, ovvero un viaggio semiserio nell'universo delle verità maschili e degli stupori femminili, intrapreso grazie alle folgoranti osservazioni suggerite dalla nostra Marina.

Prof Marina: Non ci preoccupa che non abbiate la minima idea di come siamo fatte.
Ci preoccupa che non abbiate la minima idea.


La Funny Valentine: Questa è storia recentissima, che sotto sotto mi fa sorridere e godere. Quando Manzoni scrisse, della monaca di Monza, che - sventurata - rispose, è per significare tra le altre cose che la monaca sapeva, lei, che rispondendo avrebbe sceso una china da cui era difficile se non impossibile tornare indietro. Allo stesso modo, quando un mio caro amico, durante un concerto, mi disse "Vedi quello che suona la chitarra? E' B., il ragazzo più stronzo e corteggiato della provincia", il dado era tratto, il destino segnato e l'occhio illanguidito. E' una legge non scritta - di quelle di cui mi piacerebbe teorizzasse la nostra Marina - secondo cui dare del 'bello e maledetto' ad un uomo che fino a ieri si era allegramente ignorato, porta improvvisamente a concupirlo con ogni fibra di sé. E così sia.
In realtà, di B. non riuscivo a capire se fosse bello o meno: troppi capelli, troppo lunghi, tutti in faccia. L'insieme, però, era irresistibilmente selvaggio. E' stato poi il caso a fare il resto, portandoci per due weekend di fila negli stessi posti e con la stessa compagnia, vicini a tavola e compagni di battute (spinte). Complice qualche bicchiere d'allegria, a ballare una sera lui mi si accosta e, afferrandomi con maschia decisione, sbraita: "Non svegliare il cane che... sì... quello lì... insomma, capito, il cane che se ne sta tranquillo!", "Il can che dorme?", suggerisco io. "Esatto, proprio quello", biascica.
Spinta dall'entusiasmo di questa promettente conversazione, lo invito a ballare con me solo. Mi si avviluppa come un'alga, e mi dà ampi saggi del suo irresistibile savoir faire. Mentre la musica incalza e il casino cresce, riesce a spiegarmi che "lo sai, vero, che non sei il mio tipo? E, cioè, è proprio questo che mi manda fuori di testa... Sì, ho avuto una tipa che mi frequentava [ti frequentava? E tu che facevi, nel frattempo, lucidavi in solitario la baionetta?], sai, una psicologa", e mi guarda per vedere se la notizia, sia mai, mi turba. Io fingo turbatamento e lui, tranquillizzato, prosegue: "Be', dai, questa tizia era carina, sì, e anche intelligente, non so se mi spiego. Però era sempre lì con 'sto camice: metti il camice, leva il camice, e il mio primario di qua, i miei pazienti di là..." Grazie a quest'ultima precisazione riesco a capire che 'metti il camice/leva il camice' - che all'inizio avevo inteso come un gioco di ruoli con annesso spogliarello intra muros cliniche - era in realtà una velatissima metafora deontologica. Insomma, il B. si era rotto le palle di essere analizzato dalla giovane psico-crocerossina. Questo potevo capirlo senza sforzo.
Forse quella sera sono stata improvvida: gli ho fatto capire che lo capivo, e bene, e troppo in fretta. Questo, chiaramente, lo ha 'mandato fuori di testa', cosa che si è premurato di ripetermi anche da sobrio il giorno dopo, e quello dopo ancora: per una settimana. Fino alla mia estenuata capitolazione finale.
Accetto un invito serale. Ci incontriamo in un locale stupendo, con piscina illuminata e vista sul mare velato da folti pini. Ammiro sinceramente il luogo, mi faccio condurre ad un tavolo appartato e vedo comparire una bottiglia di champagne e due calici. Sto per ricredermi sui chitarristi capelloni e stronzi. Questo tizio, quanto meno, ha il senso della messa in scena. La conversazione ingrana senza alcuna difficoltà: lui mi parla di sé, in maniera un po' randagia ma accattivante. Io piano piano mi lascio prendere dall'atmosfera, musica bollicine e muscoli, e rabbrividisco solo quando mi acchiappa il pensiero che, caspita, magari con B. mi ci potrei fidanzare sul serio [improvviso mi appare in controluce il volto sfigurato di mia madre che, urlando nefandezze, si fa saltare una coronaria... Mamma, sciò!]. Ma non serve scomodare quell'anima buona della Mia Signora Madre. Ci pensa da solo il bel self-made-chitarrista.
Occhi negli occhi, mano a cercarmi le mani (le mani??), mi sussurra delizie nell'orecchio solleticandomi coi suoi riccioli dannati. Ascolto in deliquio i suoi racconti di ex ragazzo di strada ora redento, accolgo con impareggiabile grazia l'elenco delle sue precedenti conquiste amorose, trasalisco elegantemente di fronte ai suoi coloriti modi di dire che ritraggono con icastica rudezza gli arditi desideri che in lui suscito. Insomma, mi sto già figurando al nostro matrimonio: io, fremente e di bianco vestita, accanto a lui in jeans strappati e occhiali scuri, cicca in bocca e manata sul culo a metà celebrazione (e la visione, che dio abbia pietà di me, mi piace!), quando sento serpeggiare nelle mie trombe di eustachio la seguente frase: "Sarai fiera di uscire con me, cioè, sì, ora che sai che ho fatto il provino per diventare tronista a Uomini e Donne!"
Mia Signora Madre, torna a dormire sonni tranquilli che qui, come direbbe il bel tenebroso, non c'è trippa... sì, cioè, hai capito no?, non c'è trippa per gatti.
V

venerdì 28 marzo 2008

Primavera, tempo di meme

Negli ultimi giorni sono stata pensata e nominata in merito a due meme, di quelli che piacciono a me. Decido di farli entrambi, e di farli insieme.

Il meme della pagina 161 mi è stato passato da Silvio, Contemporary Life, e consiste nel prendere in mano un libro (in teoria, quello che più ci è piaciuto) e riportare la frase più significativa di pagina 161. Ora, di libri che mi sono piaciuti tanto ce ne sono a valanghe; scelgo il primo che ho adocchiato e di cui ho un ricordo splendido: Laclos, Le relazioni pericolose. (Volendo, si potrebbe pensare che la scelta non sia del tutto casuale, ma si riallacci in qualche modo all'acceso dibattito suscitato dal mio ultimo post...).
"Gli uomini si lasciarono andare all'allegria e le donne vi si rassegnarono. Tutti avevano l'odio nel cuore, ma non per questo le parole erano meno tenere; l'allegria risvegliò il desiderio che a sua volta gli conferì un fascino nuovo. Questa incredibile orgia durò fino al mattino e quando si separarono le donne dovettero credersi perdonate, ma gli uomini, che avevano covato il loro risentimento, il giorno dopo ruppero definitivamente; e non contenti di aver abbandonato le loro leggere amanti, completarono la loro vendetta rendendo pubbliche le loro avventure."


Il secondo meme, invece, mi è stato passato dal caro Daniele, Viva el Barça, e consiste nell'elencare cinque canzoni che, in un modo o nell'altro, fanno parte di noi, ci abitano nell'anima. Come giustamente fa notare Dani, non è facile selezionare soltanto cinque canzoni... io ci provo.

Def Leppard, Let's get rocked
Il rock è la musica del liceo, quando traducevo e studiavo greco (con amore) sulle note dei Nirvana, AC/DC, Led Zeppelin... mi facevano correre i neuroni e mi riempivano di energia. Lasciavo il dizionario sulla scrivania, e cominciavo a saltare per la stanza, gridando in un inglese stentato. Credevo che la vita fosse dietro l'angolo, in una chitarra arrabbiata o dolce, in una frase tradotta con facilità. La vita si sarebbe, invece, fatta rincorrere a lungo.



De Gregori, Caterina
E' la canzone di un periodo, quello dei vent'anni, e di un amore: il primo, il più lungo e il più bello. Perché non ti bastano per piangere le lacrime di tutto il mondo, quando la notte scende e ti si gelano le braccia. In questa canzone c'è tutta la leggera bellezza, la ciclotimica esasperazione di un'adolescenza che si attarda in fattezza da donna.



Sakamoto, Marry Christmas Mr. Lawrence
Le sere, ricordo, le sere d'inverno seduta per terra con la schiena appoggiata al termosifone, e un libro sulle ginocchia e il telefono accanto a me, ad aspettare. Sakamoto, per me, è l'attesa. E Roland Barthes, che dell'attesa degli amanti ha descritto ogni ansimo, ogni sospiro, ogni più amara piega.



Gilberto & Jobim, Desafinado
La Bossa Nova è nata a casa di Pietro, che casa poi non era ma un garage pitturato di nero, un lenzuolo a separare il letto dalla cucina - guaranà - e Gilberto cantava sensuale e malinconico, assorbito da ogni poro di quelle pareti scure. La Bossa Nova è stata la passione per il portoghese, l'eterea Lisbona fragile di cielo chiaro e Pessoa che, in lingua originale, mi faceva vibrare bocca lingua e gola in un canto smisurato.



De André, Sidun
E, in ogni sua nota o parola o frase, tutto l'album Creuza de mä, in cui ci sono le mie radici, la mia anima tutta e ogni mia appartenenza. Sidun è una canzone di guerra. Ascoltatela, ci insegna molto sulla vita, la morte e noi stessi. Vi lascio con la traduzione del testo, che è cantato in dialetto genovese.

Il mio bambino il mio, il mio.
Labbra grasse al sole di miele, di miele.
Tumore dolce benigno di tua madre,
spremuto nell'afa umida dell'estate, dell'estate,
e ora grumo di sangue orecchie e denti da latte.
E gli occhi dei soldati cani arrabbiati con la schiuma alla bocca,
cacciatori di agnelli,
a inseguire la gente come selvaggina
finché il sangue selvatico non gli ha spento la voglia.
E dopo il ferro in gola, i ferri della prigione,
e nelle ferite il seme velenoso della deportazione,
perché di nostro dalla pianura al molo
non possa più crescere albero né spiga né figlio.
Ciao bambino mio, l'eredità è nascosta
in questa città che brucia, che brucia nella sera che scende
e in questa grande luce di fuoco,
per la tua piccola morte.

martedì 25 marzo 2008

Tipi da (non) aMare. Parte I

Riemergo solo ora da un impegnativo weekend pasquale: oltre ad avere un libro da scrivere appuntamenti da fissare ricerche da portare avanti, la situazione politica mi confonde, i problemi sociali perplimono, occorrenze memorie e riflessioni incalzano. Ma più d'ogni altra cosa, oggi, mi urge l'istanza cronachistica. Stamattina facevo un assonnato giro tra gli arretrati dei miei BlogAmici, soffermandomi più a lungo sui serial-post di Marina. In particolare su questo, questo e questo. Sulle prime ho sorriso assai. Poi ho sobbalzato: la Prof teorizzava le mie esperienze!
Single da qualche mese, di questi ultimi tempi ho la fortuna di conoscere e frequentare uomini diversi tra loro e - tra croci (molte) e delizie (poche) - mi sto parecchio documentando su quelli che non a caso ho definito nel titolo: Tipi da (non) aMare. Un viaggio semiserio tra grandi verità imperiture e piccole avventure quotidiane. Teoria e pratica, insomma: grazie agli straordinari "Consigli ai giovani" della Prof, andrò a fare una disamina a puntate delle mie più recenti esperienze.

Prof Marina: Se vi sembriamo irraggiungibili è il momento di osare.
Ci piace darvi torto.
Quando invece vi sembra fatta, è il momento di preoccuparsi.
Ci piace darvi torto.


La Funny Valentine: Conosco questo tizio poco prima di Natale. E' uno scalatore dell'anima: non gli importa quanto sia ardua da raggiungere la cima, lui si rimbocca le maniche e, settimana dopo settimana, con le nude mani e muscoli tesi per lo sforzo, cerca di arrivare dove io, ormai da mesi, arrocco. Gli amici, alcuni dei quali in comune, gli dicono a più riprese: "Valentina non è per te". Lo vengo a sapere in qualche modo, e questo mi intenerisce il cuore. Piccole frane interiori smottano e sgretolano le mie più ardue difese, ed io mi sento placidamente ben disposta. Non fosse per un piede in fallo che riattizza i miei sospetti e rinsalda le mie difese.
Perché, mentre di buon grado osservavo la delicatezza e la costanza con cui lo scalatore erodeva i miei baluardi interiori, comincio a rendermi conto del fatto che lui è meno delicato, meno circospetto e soprattutto ha sorrisi da colonizzatore. Dapprima immagino sia orgoglio da conquista, il suo. Poi invece comprendo la verità: nonostante io gli avessi detto ripetutamente che per me la resa non era ancora vicina - anche se forse intuibile -, lui si sente arrivato, tenta di piantare la bandiera sul cocuzzolo (e non siate maliziosi!), e pretende: vuole una relazione, vuole esclusività, vuole 'affetto'. Ecco, come dice Marina, gli "sembrava fatta", e la mia montagna ha tremato di rabbia fino a farlo ridiscendere a valle.
La sua voce si è dispersa, e con essa l'arroganza del suo proprietario.
V

domenica 23 marzo 2008

La Pasqua e il Testamento di Tito

Sono confusa, in questo periodo della mia vita. La politica, la religione, l'autorità: tutto quello che ho creduto e pensato fino ad oggi sta subendo una rivoluzione copernicana, un mutamento di paradigma. Sono in quella terra di nessuno in cui le idee sono caotiche ed eccitate, vagano da una parte all'altra della mia testa, si misurano con la realtà circostante e con la mia coscienza. Per questo, non so che augurio farvi. Non so se dire "Buona Pasqua" sia ciò che realmente penso e che realmente vi auguro. Un fiore è ciò che vi porgo per queste brevi feste, e "Il testamento di Tito", al momento, è l'unica morale provvisoria su cui faccio conto e che mi piace, oggi, condividere con voi.
V

Fabrizio De André, Il Testamento di Tito

venerdì 21 marzo 2008

L'armadio della vergogna

I fatti: tra il 1943 ed il 1945 molte migliaia di civili furono vittime di innumerevoli stragi compiute da nazisti e fascisti in tutta Italia. Un elenco tragico che comprende nomi noti ed altri meno, tra i quali si possono ricordare Stazzema, Marzabotto, Fivizzano, Conca della Campania, Barletta, Fossoli, Matera, Capistrello... Nei mesi successivi alla Liberazione, molti dei colpevoli vennero individuati e su di loro furono aperti procedimenti penali. A Palazzo Cesi - palazzo cinquecentesco in via degli Acquasparta a Roma, sede della Procura Generale Militare - affluirono i fascicoli relativi a centinaia di crimini compiuti dai nazifascisti ai danni di vittime civili. Su quei fascicoli erano annotati i nomi delle vittime, i nomi degli assassini e i luoghi dei crimini. Tutto, però, rimase sepolto e muto in quel palazzo. Non ci furono istruttorie e non si celebrarono processi. Prove, testimonianze e nomi furono risucchiati nell'oblio.
E' stato solo nel maggio del 1994 che il procuratore militare Antonino Intelisano (che si stava occupando del processo contro l'ex SS Erich Priebke) rinvenne a Palazzo Cesi, dentro un armadio con le ante rivolte verso il muro e chiuse a chiave, un grande registro contenente ben 2273 voci e 695 fascicoli, in 415 dei quali si citavano i nomi dei colpevoli. Al 'numero uno' compariva l’eccidio delle Fosse Ardeatine, con i nomi di Herber Kappler, Erich Priebke e altri assassini che, grazie a quell’armadio rimasto chiuso, avevano nel frattempo goduto di cinquant'anni di libertà.
Si dice che fu la ragion di Stato ad imporre l’occultamento di quei fascicoli. Nel mondo suddiviso in due blocchi, in pieno clima di Guerra Fredda, la nuova Germania doveva entrare nella Nato come baluardo contro l’avanzata sovietica. Si preferì, così, tacere i crimini commessi dal nazismo ed aprire una nuova pagina della Storia, il più intatta possibile.

Recentemente mi è capitato di scovare, su internet, l'articolo di un onorevole di AN, tal Enzo Raisi che, parlando dell'armadio della vergogna, ha sentenziato: "non ci fu nessun armadio della vergogna, tesi cara a una certa storiografia di sinistra, né tantomeno una volontà di occultamento. I gravi ritardi che ci hanno portato alla sentenza dell'altro giorno sono dovuti in realtà ai mutamenti della giurisprudenza militare". Questa affermazione, nella sua viscida banalità di parte, mi ha fatto riflettere su quanto ogni cosa, ogni fatto, ogni avvenimento - per quanto crudele, avvilente e vergognoso sia - possa essere politicamente strumentalizzato e deformato, trattato senza alcuna onestà storica o intellettuale. E mi sono chiesta oggi, in pieno clima di campagna elettorale, quale fede dare a tutti i nostri politicanti, di destra e di sinistra. Nessuno di loro mi piace, nessuno mi convince. Nessuno mi ha dimostrato d'avere quel minimo sindacale di rettitudine che me lo renderebbe, non dico simpatico, ma quanto meno preferibile ad altri.

Al nostro onorevole di AN, Raisi, non è venuto in mente, per un istante almeno, che la vergogna di cui si parla dicendo 'armadio della vergogna' non è una categoria politica, non è un concetto strumentale che avvalori o neghi una certa tesi, non è nemmeno un 'penitenziagite' o un anatema collettivo ("vergognatevi, gente!")? Non è venuto in mente, per un istante, che si tratta di una vergogna morale, una freccia luminosa che ci indica la via del 'non è giusto', e che ci spinge a cambiare direzione? Che esiste un 'bene' e un 'male' etico, e non solo politico? O meglio: che il bene ed il male dovrebbero essere al di là di ogni categoria, e insegnarci come si vive, come si fa politica, come e dove dobbiamo indirizzare la nostra vita, pubblica e privata?
No, non credo che queste peraltro banali riflessioni vengano in mente tanto spesso ai nostri politici.
V

Carlo Lucarelli, L'armadio della vergogna, parte prima.

giovedì 20 marzo 2008

La Classica di Primavera in musica

L'anno scorso, di questa stagione, la città intera se la stava ridendo. Il Comune, giusto in occasione della Milano-Sanremo, aveva appostato, alla fine di una discesa e prima di una piazza, una minuscola rotonda adornata da imponente macina d'epoca. Eravamo terrorizzati: con la velocità che avrebbero avuto i corridori alla fine di Capo Berta, e quel mostruoso monumento in pietra ("Non potevamo non metterlo", si scusavano i vari politicanti che avevano deciso l'ardua innovazione architettonica, "la macina ce l'ha gentilmente donata il figlio dello zio di Paperon de' Imperiopoli..." Capo chino e genuflessione), i nostri occhi erano invasi dalle tragicomiche immagini di orde di ciclisti in fuga che fatalmente si schiantavano sulla macina d'epoca di Paperon de' Imperiopoli, e tutta la nostra cittadina irrisa e additata dall'Italia intera per aver causato la morte di qualche decina di sportivo... Sfottimento nazionale in 'prime time' e scuse pubbliche: sì, siamo degli imbecilli, lapidateci coi resti della vile macina d'epoca! Paperon de' Imperiopoli, ti rinneghiamo! Sciò, animaccia 'nfame!
Non accadde nulla di tutto ciò: la gara non registrò incidenti, almeno non all'ingresso della nostra ridente cittadina e non a causa dei doni dei nostri generosissimi contribuenti. Pace e bene, ite missa est. Amen.
Che poi di ciclismo io non ne so niente, per carità. Ma ci sono due stagioni del vecchio ciclismo che mi emozionano sempre, ogni volta che le ascolto: quella di Girardengo negli anni '20 e quella di Bartali, negli anni '40. Due stagioni che evocano un agonismo sano e festoso, dove si correva per rabbia o per amore. Pedalate e polvere, l'attesa della gente ai bordi delle strade, i francesi che s'incazzavano (che le balle ancora gli girano) e, soprattutto, l'attesa di quel naso triste come una salita. Le donne, sì, a volte erano scontrose e avrebbero preferito un bel mazzo di rose - o il rumore che fa il cellophane (ma forse, oggi come ieri, avevano solo voglia di far pipì), ma poi alla fine anche loro avevano polvere nei sandali, e bevevano birra ai bordi della strada tra i giornali che svolazzavano, con gli occhi allegri da italiane in gita.
V

Il Bandito e il Campione, F. De Gregori


Bartali, P. Conte

martedì 18 marzo 2008

Il controllore che in treno parlava d'amore

Ieri, mentre tornavo in treno da Torino, passa il controllore e mi chiede il biglietto. Glielo porgo e lui lo guarda, lo rigira, poi esclama: "Signorina, questa è la prenotazione del posto! Io ho chiesto il biglietto". Mi si dipinge un certo stupore, in viso. Farfuglio: "Ho fatto il biglietto automatico... questo è quello che la macchina mi ha dato... io non so altro..." Il controllore, con un sospiro, si siede di fronte a me, si gratta la testa e inizia a dire: "Signorina, non voglio passare per quello maschilista, sa, ma siete sempre e solo voi donne a fare questi casini... non me ne capacito!", poi cantilena, scandendo bene parole e sillabe, "Legga cosa c'è scritto sul suo biglietto in fondo a sinistra... legga, su. Totale biglietti erogati? ... Lo vede? 2! Due, signorina... E il display della macchina automatica glielo dice a caratteri cubitali: NUMERO BIGLIETTI DA RITIRARE: 2!" Eh eh, sorrido io con fare umile. Ha ragione, ma deve sapere che sono arrivata a Porta Nuova cinque (non sto esagerando a beneficio del controllore, è la pura verità) cinque minuti prima della partenza del treno, senza biglietto e con una fila agli sportelli che rendeva improbabile la prospettiva di un mio ritorno a casa in serata. Mi guarda con dolcezza, si gratta ancora la testa e sorride. "Signorina, che le devo dire? Sarà innamorata..." Mi si triglia l'occhio, sento una vampata di caldo tra il collo e l'orecchio ed esclamo, stupita: "In effetti a Torino avrei conosciuto una persona...", "Ah sì? Bene bene... mi racconti!" Mi rende il biglietto-prenotazione, incrocia le gambe, mette via il palmare e mi guarda con aria partecipe. "Mi dica: dove l'ha portata per fare così tardi in stazione?" Catturata dall'acume della vecchia volpe, mi sembra inutile nicchiare e rispondo: al Valentino. "Che romantico!", esclama, e aggiunge "Non faccia la ritrosa, mi racconti, coraggio, che il treno è mezzo vuoto e poi mi piacciono le storie d'amore!" Sorrido.
E' una storia breve, inizio io, e nemmeno d'amore. Una storia breve fatta di coincidenze, e di un ragazzo che ha saputo stupirmi. Che, per rintracciarmi e propormi un passaggio, ha fatto una catena di sant'antonio di telefonate, poi mi ha scarrozzato per le vie assolate di una Torino luminosa e calda. Ci siamo seduti su una panchina di fronte al Po, gli alberi spogli ma gemmati. Abbiamo bevuto dell'acqua e un caffè, parlato delle nostre passate esperienze sentimentali e scherzato lievemente. Tutto molto limpido, in un certo senso banale. Ma è stata proprio la qualità consueta e calma di quell'appuntamento a lasciarmi una buona sensazione addosso - come il gusto del buon caffè che rimane sulla lingua ancora a lungo. Niente più di questo, concludo. Due baci sulle guance a ridosso di un treno preso per caso e per fortuna, e una battuta detta quando le porte si stavano chiudendo: "Hai il mio numero, Vale. Usalo".
Guardo il controllore. Annuisce. Posa le mani sulle ginocchia e si dà una spinta per alzarsi in piedi, ché la stazione di Alessandria è ormai vicina. Uscendo dallo scompartimento, si volta e mi chiede: "E lei, cosa gli ha risposto?", "Gli ho detto: 'Usalo anche tu', ma senza guardarlo negli occhi". "Bella mossa", commenta. E, mentre è già nel corridoio e io non lo vedo più, aggiunge - col sorriso nella voce: "Vedrà che a Pasqua sarà da lei".
V

domenica 16 marzo 2008

Il sabato degli Shark

Ieri sera ad un certo punto ho inviato un sms disperato ad un amico scrivendogli: salvami! Avevo ingenuamente preceduto la mia compagnia al locale pensando: mentre li aspetto scambio due parole con C. (la barista) che non vedo da una vita. Non faccio in tempo a sedermi sullo sgabello, seminare borsa sciarpa e cappotto su altri quattro sgabelli, che Mr. Shark (alto, magro e brizzolato) si avvicina a me con assoluta e malriuscita nonchalance, mi ruota attorno un paio di volte poi, incoraggiato dall'amico Shark II (alto, grasso e canuto), mi si piazza a fianco. "Cosa bevi?", indaga lui. "Un daiquiri molto secco", rispondo, e tuffo gli occhi sul fondo del bicchiere, con assoluta e - lo dimostreranno i fatti - malriuscita nonchalance. Shark I, lo si nota subito, non è del posto. Ha una parlata strascicata da Vorrei Far Parte Della Upper Class, gesticola rumorosamente (il che denota che dalla upper class è piuttosto lontano), e parla. Parla in continuazione. Parla e gesticola. Parla di sé, si smutanda davanti a noi con trasparenza disarmante.
Nei primi cinque minuti mi ha spontaneamente reso edotta del fatto che:
1. è dell'acquario (di febbraio, però, che quelli di gennaio son degli stronzi, parola di Shark);
2. è sposato, separato, con una figlia di due anni e mezzo a cui ha intestato un appartamento. Alla moglie - ma non abbiamo più rapporti sessuali anche se spesso dormiamo assieme... - passa 300 euro al mese, e ne approfitta per ricattarla amorevolmente: siccome ha il vizietto, se domani mi gira le mando la polizia a casa, le faccio fare le analisi del sangue, e la bambina è mia. Ma no, che alla fine non sei così figlio di puttana, suggerisco io. Sì sì che lo sono. Ah be', allora...
3. è piemontese ma il Mondo è la sua casa, perché sai: a me annoia tutto. NY?, dopo un mese m'ero rotto i coglioni (per cui ora si sente in diritto di romperli a sua volta agli italiani tutti). La Spagna?, adoro le spagnole (ommioddio, vuoi dire c'era il doppiosenso e io l'ho capito solo ora?) ma gli spagnoli mi stanno qui. E sussurrando con fare carbonaro: sai, puzzano. Per non parlare degli arabi e della guerra in Iraq che, intendiamoci, è sbagliatissima, per carità. Ma, già che c'era, Bush poteva completare l'opera e sterminarli tutti, che 'sta gente è pericolosissima, e ci sotterrerà, garantito. E conclude questo girotondo-intorno-al-mondo con l'esegesi delle sue innumerevoli esperienze. Mi spiega, infatti, che viaggia non solo perché si annoia, poverello, ma anche perché oggi, con la globalizzazione, essere Cittadini del Mondo è un diktat. Amen.
Dopo questa alta lezione di sociologia, lo fermo perentoriamente e invoco una pausa sigaretta. All Alone. "Che bell'idea! Vengo anch'io".
Che culo.
V

venerdì 14 marzo 2008

Etty Hillesum e la bellezza del mondo

Hetty Hillesum era una giovane donna luminosa. Così la ricordano alcuni sopravvissuti che hanno condiviso con lei i giorni di prigionia a Westerbork prima di essere destinati ad Auschwitz. Era luminosa, intelligente, forte e passionale - anche nelle sue umanissime fragilità di donna, di ebrea e di individuo in itinere. E' stata una pensatrice di abissale profondità ed elevata spiritualità, capace di osservare l'individuo nei suoi più oscuri anfratti interiori ma senza mai perdere quella luminosità che la contraddistingueva. Eppure, Etty Hillesum non è diventata nota come Anne Frank o Primo Levi. Perché?
All'inizio pensavo fosse perché Etty Hillesum è effettivamente una lettura complessa: ricerca psicologica e misticismo, istanze etiche e visioni straordinariamente moderne, ne fanno un percorso arduo, in certi tratti. Poi, parlando una notte con degli amici (attorno ad un bel tavolo tondo di legno chiaro), abbiamo capito il vero motivo di questo ostinato mezzo oblio: lei non è rassicurante, lei ci sbatte in faccia una verità che non vogliamo ascoltare, lei ci dice: "Il marciume che c'è negli altri c'è anche in noi [...] E' l'unica lezione di questa guerra: dobbiamo cercare in noi stessi, non altrove". Noi siamo Hitler, noi siamo i vicini di Erba - non il nostro dirimpettaio, non un'epoca storica lontana da qui ora.
Eppure (ma in questo 'eppure' non c'è niente di consolotario) dobbiamo conoscere e saper riconoscere in noi stessi questo marciume per poterlo strappare via, perché non si può "migliorare qualcosa nel mondo esterno senza aver prima fatto la nostra parte dentro di noi".
Questa donna scelse di essere deportata ad Auschwitz con la propria famiglia, rifiutando i numerosi progetti di fuga che le erano stati offerti. Decise, senza illusioni o false speranze, che quello sarebbe stato il suo destino, "essere divorata dai pidocchi in Polonia". Lo scelse, e non era infelice, né tantomeno pazza o sognatrice. Non era una martire. Questa donna, chiusa su un treno merci che l'avrebbe rapidamente portata alla morte, lanciò da quel treno una cartolina che fu in seguito ritrovata da alcuni contadini. Su di essa, Etty aveva impresso il suo testamento e la sua testimonianza: "Abbiamo lasciato il campo cantando".

Ho aperto a casaccio la Bibbia ma stamattina non dava risposta. Non importa molto, del resto, non c'erano vere domande da fare, c'è solo una gran fiducia e riconoscenza che la vita sia tanto bella, e perciò questo è un momento storico: non perché tra poco io devo andare con S. alla Gestapo, ma perché trovo ugualmente bella la vita.
Probabilmente è da lì che mi viene questa serenità, questa pace interiore: dalla coscienza di sapermela cavare da sola ogni volta, dalla constatazione che il mio cuore non si inaridisce per l'amarezza, che i momenti di più profonda tristezza e persino di disperazione mi lasciano tracce positive [...] Partirò sempre dal principio di aiutare Dio il più possibile e se questo mi riuscirà, bene, allora vuol dire che saprò esserci anche per gli altri.
La maggior parte degli occidentali non capisce l'arte del dolore, e così vive ossessionata da mille paure. E la vita che vive la gente adesso non è più una vera vita, fatta com'è di paura, rassegnazione, amarezza, odio, disperazione. [...] Si deve accettare la morte, anche quella più atroce, come parte della vita. Io sono quotidianamente in Polonia, sono accanto agli affamati, ai maltrattati e ai moribondi, ogni giorno - ma sono anche vicina al gelsomino e a quel pezzo di cielo dietro la mia finestra, in una vita c'è posto per tutto. Per una fede in Dio e per una misera fine.

Etty Hillesum, Diario

V

giovedì 13 marzo 2008

Imperia mon amour

A volte penso di vivere in un deserto: e ciò che ci allarga lo sguardo, a noi liguri, è solo il mare davanti, ma le colline a strapiombo ci mettono con le spalle al muro. E ci sono delle volte in cui, scendendo da Milano, quando incontro il mare da un finestrino, la bocca dello stomaco mi si chiude, e la pelle scorre di un brivido freddo, e penso che potrei perdermici in quella mostruosa bellezza cangiante.
Ma Imperia è un deserto, credetemi, e io ci vivo in apnea, poi sento di non poterne più - il fiato ho bisogno d'aria - e prendo un treno, uno qualunque. Poi torno, perché come mi torce il cuore questo metro di terra a bagnomaria, questa lingua di serpente che nessuna carta geografica riuscirà mai a localizzare con precisione, nessun altro riesce. Eppure c'è il nulla, a Imperia: nelle librerie non ci sono i libri, i cinema sono stati drammaticamente decimati (per farvi un'idea della situazione, consiglio di leggere qui), non esistono locali e le videoteche sono sconsolatamente sprovviste: che se vuoi vederti l'ultimo di Pieraccioni, sei a cavallo, ma se chiedi Costa-Gravas ti guardano attoniti, Costa-che?
Questo vuoto pneumatico lo trovai icasticamente espresso su un muro dell'università a Milano. Passeggiavo con un'amica per i chiostri, quando la mia attenzione fu catturata da una scritta discreta ma autoritaria che mi fece verde di rabbia: Imperia al rogo, Sanremo capoluogo. E nonostante il mio livore, riconosco che il poeta anonimo in rima baciata non aveva nemmeno tutti i torti.
Siamo quattro gatti, tristemente compiaciuti del molto poco che offriamo a noi stessi, tutti, e i giovani più di tutti gli altri. Quelli bravi che conoscevo sono andati via: e se l'Italia non offriva posti abbastanza lontani, hanno scelto l'estero, Londra, Bruxelles, la Cina. Io no. Io sono rimasta (certo, con un piede solo, che l'altro è errabondo), perché forse sono meno brava, o forse troppo pigra, ma magari sono rimasta perché voglio credere che questa sia terra fertile, che - assieme a qualche altro 'bravo' superstite - voglio provare ad arare, seminare, curare. Voglio darmi una possibilità, e darla a questa città questo mare che amo con furia e rabbia. Vorrei che il mondo fosse un immenso tesoriere, uno scrigno, e tuffarci le mani fino ai gomiti - toccare vedere capire e scegliere - trattenendo fra le dita qualche gioiello o idea o persona o forma da trapiantare in questa mia città. E' per questo che da poco abbiamo fondato un'associazione culturale: per fare, e finalmente smetterla di mugugnare.
Ditemi che non sono un'illusa, per questa speranza e questo progetto.
V

martedì 11 marzo 2008

Pioggia, e la notte (Cantico dei Cantici)

In un attimo ho ritrovato la mia più spinta architettura interiore, fatta di emozioni che gesticolano e svettano, di pugni allo stomaco d'adrenalina e impazienza. Esattamente com'era successo alcuni mesi fa, un istante è bastato - come un click - ad aprire mondi e lasciar fluire intorpidite sensazioni viscerali. Ho guardato il mare attraverso queste persiane che stillano gocce di pioggia come resina, e mi è sembrato che la bellezza mi avesse teso la mano per traghettarmi nell'ovunque che lei circonda. Mi ha afferrato, cruda, fino a farmi chiudere gli occhi digrignare i denti, e la mia pelle non aveva più nessun confine riconoscibile, era in quell'ovunque quell'istante. Perché se le tue mani mi afferrano, è come se la bellezza stessa mi afferrasse: levigata, forte, prepotente. Ho amato le tue mani come il tuo sapore, che ha lasciato un bisogno di ritorno su quelle stesse vie le strade i ponti e le scorciatoie che mi hai disegnato addosso. E' stata la notte a vestirmi e svestirmi e lasciare scie di intenso piacere come volute di facile comunione: un glorioso cercarsi trovarsi che non conosce soluzione di continuità. E' durato una notte, ma ancora oggi cola dal cielo e fluisce nelle vene come questa pioggia-resina che rimane incrostata al cervello incrostata alla carne. L'acqua non può lavare ciò che il desiderio ha smosso e poi infiammato, che l'acqua lava solo quello che si lascia scivolare via; ma le tue braccia mi trattengono, e la pioggia è impotente.  

"Mi son levato la tunica,
perché indossarla ancora?
Mi son lavato i piedi,
perché imbrattarli ancora?..."
"Il mio diletto spinse la mano
dentro lo spiraglio,
e si commosse per lui il mio cuore.
Mi levai per aprire al mio diletto
e stillarono mirra le mie mani,
e le mie dita mirra fluente
sulla maniglia della serratura."

Cantico dei Cantici

V

lunedì 10 marzo 2008

E la lotta si fa scivolosa e profonda (1996)

Stavo seduta con Manuel nella sua macchina e davanti al mare. Con quel suo particolarissimo senso del momento, silenziosamente aveva inserito una cassetta nello stereo catalizzando la mia attenzione con un solo cenno del capo, e facendomi ascoltare per la prima volta Anime Salve. Era il 1996: io e lui ci eravamo conosciuti da poco - ma saremmo rimasti insieme a lungo.
Manuel è De André, più di quanto lui stesso sappia. Scivola attraverso i giorni con occhi umidi e passo saltellante, e nella sua stranita levità posa sguardi stupiti e belli sulle cose: occhi di tre quarti che tagliano il mondo e lo sfaccettano come fosse pietra preziosa. L'ho amato molto, nell'età in cui amare è un lusso e una fortuna e lo si fa così: sconsideratamente e a rotta di collo.
Passavamo ore ad ascoltare De André: non solo delle sue anime sciolte e libere e risolte e vaganti, ma anche il De André storico, quello delle ballate e il dialettale, compagno di merende e rime con Paolo Villaggio, e il poeta dei Vangeli apocrifi. E sempre ci stupiva, nel suo percorso di musicista in versi, la perfezione ricercata e - solo infine - trovata nella pronuncia della parola: dolore. De André dice 'dolore' e tu senti dolore. In quel filo rauco che percorre le note e i testi, quella vena di sensualità e mistero di cui è increspata la sua voce, il 'dolore' rappresenta il vertice e la meta del suo percorso di ricerca: umana e poetica.
... e allora siamo cresciuti così, insieme, io guardando quelle sue promesse di lacrime negli occhi, le orecchie ben spalancate a cogliere accenti e tormenti del bel Fabrizio, e lui a osservare - affamato, è vero, ma quieto - il mondo e le sue luci, i suoi angoli bui e sporchi senza ritrarsi, ma sempre in silenzio: che a Manuel il mondo traboccava dagli occhi ma raramente sgorgava parola (un sollievo di lacrime a invadere gli occhi, e dagli occhi - cadere). E nonostante mi sentissi soggiogata e schiava di quegli occhi muti, io mi sentivo come la moglie di Anselmo: sognavo del mare che, quando ingorga gli anfratti, si ritira e risale. Il mare è diventato idea di fuga, e la fuga, poi, si è fatta lontananza.

Oltre il muro dei vetri si risveglia la vita, che si prende per mano a battaglia finita
come fa questo amore che dall'ansia di perdersi ha trovato in un giorno la certezza di aversi.

V

Dolcenera, F. De André

domenica 9 marzo 2008

Lezioni di filosofia nel giorno della donna

Il mio vecchio, illuminato professore di Filosofia morale all'università, Virgilio Melchiorre, ha dato quella che, secondo me, è una delle più affascinanti descrizioni fenomenologiche della distinzione tra uomo e donna. Oggi, nell'ormai abusata Festa della donna, propongo alcune delle più interessanti tesi da lui espresse nel saggio Metacritica dell'eros.

L'uomo è per natura cavaliere errante: il suo spirito - attratto dal trascendente e dall'altrove - vaga e vaga, fatalmente attirato da orizzonti sconosciuti. Ma il pericolo intrinseco di questo irrisolto vagare sta nella tentazione di fuggire - senza fedeltà e senza memoria - anche da se stesso, e al contempo nel rimanere prigioniero di questa fuga che si attua senza soluzione di continuità, come condanna o destino. La donna, per natura stanziale e castellana, Terra e grembo e custodia, memoria e fedeltà, reca in sé i pericoli della sterile conservazione, della pochezza di vedute e prospettive.
Eppure, uniti questi due limiti e queste due grandezze, ne deriva una formidabile ricchezza relazionale, che è tanto più profonda quanto più intenso è il rapporto. Finitezze ed infinità maschili e femminili si possono allora incontrare laddove l'uomo diventi cavaliere della finitezza e lei castellana dell'infinito, ovvero poli alternati e complementari in cui la donna riesce a fiorire come finitezza aperta all'infinito, e l'uomo a definirsi come infinito determinato dal finito.
Citando Schleiermacher, potremmo concludere dicendo che

l'uomo con l'amore guadagna di unità, di collegamento di tutto ciò che è in lui col suo vero e sommo centro, insomma di chiarezza e di carattere; la donna invece di coscienza di se stessa, di espansione, di sviluppo di tutti i germi spirituali, di contatto col mondo intero. [...] Voi uomini ci perfezionate; ma noi vi consolidiamo.

[Tratto da L'amore romantico]

V

giovedì 6 marzo 2008

Sulla famiglia, e mia madre

Copia di cortesia di EPolis Milano, giornaletto che viene distribuito gratuitamente per le strade della città: in prima pagina si legge il titolo "Spedizioni razziste in città, sprangate contro i filippini". Autori di quest'atto di violenza: quattro ventenni (arrestati) e dodici minorenni (denunciati), tutti italiani. Un carabiniere ha commentato: "Fatto più unico che raro [...], non si registravano da tempo aggressioni con matrice razzista". E, come a contraddire l'ottimistico carabiniere, si legge in un trafiletto della stessa pagina: "Molotov al campo rom: due molotov contro il campo nomadi di via Idro sono state lanciate martedì sera".
Leggo queste notizie, e nella testa ho una gran confusione: ragazzetti che a scuola picchiano i compagni disabili, e mettono in Rete il filmato girato col cellulare; bambine di 12 anni che si fanno palpare, o fanno sesso, in cambio di qualche spicciolo per una ricarica sul telefonino; oscuri studenti universitari che - il vuoto negli occhi - massacrano giovani donne, fidanzate o amiche, lasciandole cadaveri in pozze di sangue.
Nella mia confusione c'è il senso di qualcosa di troppo grande da affrontare - ma non da capire. Le famiglie, la famiglia: ecco qual è il problema, e qual è la soluzione.
Ho un'amica. E' una bella donna torinese di 49 anni, bionda e fine. La conobbi quattro anni fa quando, scesa in Riviera, si innamorò, ricambiata, di un mio amico molto più giovane di lei. Hanno avuto una lunga storia e travagliata, i cui strascichi si protraggono ancora ora: più nessun sentimento da parte di lui, forse, ma in compenso molto sesso durante i weekend. Lei ha una bella figlia appena maggiorenne, e io ho sempre provato per questa ragazzina una pena enorme. 
Penso a mia madre, augusta donna di famiglia vecchio stampo, sorridente ma temibile nella sua severità di quand'ero adolescente. E riconosco quanto la sua severità abbia preservato la mia adolescenza, quanto l'abbia saputa indirizzare e rendere sana. Litigavo con lei, strepitavo, battevo i piedi (che sono sempre stata ribelle), ma la rispettavo perché si faceva rispettare dalle bizze ormonali e caratteriali di una bimba appena cresciuta. I suoi 'no' erano no inflessibili, e allora correvo da mio padre, che mitigava la forza di quei 'no' ma non li contrastava, e io passavo la notte a piangere sul cuscino, a morderlo anche, a guardare con occhi sbarrati le luci dei lampioni che filtravano dalle persiane pensando con ardente furore al mondo, là fuori.
Ho avuto una madre come un grembo fertile su cui seminare la mia identità e veder crescere i frutti. Una madre che quando rispondevo male mi tirava una sberla sulle labbra, e quella fede d'oro giallo bruciava quanto l'orgoglio ferito. Oggi, scherzando, le dico talvolta: "Avresti dovuto tirarmene di più" perché il vezzo della battuta caustica e sferzante non l'ho mai perduto. Ma ho imparato a gestirlo, a indirizzarlo.
E mi chiedo: dove si sono perse le madri di quei ragazzi violenti, inconsistenti e sbandati - oggi? In quale letto, su quale scrivania ingombra di carte, in quale ansia insoddisfazione o specchio deformante? Di quale abbaglio sono vittime, di quale paura schiave e su quale sentiero vagano tentando di ritrovare la strada? Il loro smarrimento è la nostra condanna.
V

martedì 4 marzo 2008

Sono stufa (la Pietà Rondanini)

E' inutile girarci intorno: aveva ragione
Umberto Galimberti quando disse, molto tempo fa, che quella dei giovani, oggi, è una generazione che ha un'unica preoccupazione: procurarsi un'incredibile quantità di tempo libero per assaporare fino in fondo l'assoluta insignificanza del proprio peso epocale. Di questa mia generazione - che abbraccia forte ma non stringe nulla - sono stufa, e stufa sopra tutti di me stessa, e della mia pochezza onanistica, del mio giro di amicizie, dei ventenni, dei trentenni e di ogni forma di umanità che mi circonda. 
Sono stufa dell'umanità morta sul lavoro, che si becca gli applausi ai funerali come se si trovasse, cadavere, sull'ultimo palcoscenico mediatico del suo passaggio terreno.
Sono stufa dello sguardo profondamente buio e senza fede di questo nostro papa accentratore e anacronistico, che al posto del cuore e sotto l'abito nasconde furtivamente una voragine di spaventosa brama di potere.
Sono stufa dei telegiornali, delle notizie strumentalizzate, del mare di parole che invece di indirizzare confonde, dei programmi fasulli e della tirannia dell'immagine. Sono stufa di chi pontifica, di chi giudica, di chi punta il dito e di chi frigna balbettii inarticolati e osceni.
Sono stufa di questi giovani senza meta e senza coglioni, che si sballano perché pensano di non avere altre possibilità o altro ideale che non sia la logica del qui e ora - un qui e ora vuoto come loro e come loro senza futuro.
Sono stufa - ma poi mi vien da piangere su questa impotenza a voltare pagina voltare mondo, e mi sento come tutti: prigioniera di un colossale piagnisteo egoriferito, vittima di cliché che non riesco a scrostarmi di dosso perché il più delle volte nemmeno li riconosco, giocata, e messa nel sacco. Fatico ad uscire da questi miasmi catramati come a suo tempo faticò Michelangelo a far uscire la Pietà dal marmo: un'idea che tenta in ogni modo tenta di farsi spazio farsi forma, sgomita, si de-forma, s'ingegna a diventare definitezza e chiarezza, ma non riesce. Rimane lì, a metà strada tra l'atto e la potenza, rimane intenzione, anelito dolorante, ispirazione verso un infinito che mai potrà raggiungere, né - forse - comprendere. 
V


La Pietà Rondanini

lunedì 3 marzo 2008

You make my day, sì, proprio tu!

Di tutti i meme, le catene e i giochini che girano furiosamente tra i blogger, questo era quello che desideravo di più. Perché è bello al mattino, prima di mettersi al lavoro e dopo aver dato un'occhiata ai giornali, con la mia tazzona di caffè solubile e i riflessi rallentati, andare a trovare una serie di 'primi' blog di cui realmente m'importa leggere. E' un po' come la chiacchierata tra amici, la telefonata con la mamma che abita lontano, la carezza di buongiorno che fai al gatto quando scendi dal letto. E mi chiedevo - vittimisticamente, lo so! - se a nessuno piacesse fare un salto da me, di prima mattina, a leggere le mie stronzate esistenziali. Ebbene, sì, c'è! Ed io ringrazio tanto, che anche questa è una notizia che può rallegrare un bieco lunedì mattina di inizio marzo... Ringrazio, quindi, VJJ per avermi conferito l'anelato premio you make my day.
Ora, svelerò a mia volta le carte, dicendo quali sono i blog che per primi vado a spulciare al mattino... Non è una 'nomination', questa. Se qualcuno vorrà accettare l'invito, ben venga. Altrimenti, va bene lo stesso. Le persone che sto per elencare sono il mio personalissimo caffè e sigaretta delle otto e mezza... volevo solo che lo sapeste.
Non posso non iniziare da VJJ e dal suo Incantesimoverbena, dolce, leggero e solare luogo di incontro tra fanciulle che si stanno simpatiche.
Proseguo con Donnigio, delizioso Piccolo Principe dai ritmi quieti e dalla penna accattivante.
Roberto e i suoi attimi, le sue splendide foto che esibiscono un'anima, le sue musiche e le sue citazioni.
Un sorriso speciale dedico ogni mattina a Marina l'incendiaria, che le sue micce sono i post, le parole, le notizie, e lei le attizza e le anima, le vive e le diffonde con incorruttibile entusiasmo.
Non posso, infine, non citare la bella Clotilde, interessante, elegante e profonda donna. Di post in post, lei mi stupisce e mi spiazza, mi irretisce e, spesso, mi suscita sorrisi.
Un buongiorno a tutti: ai presenti e agli assenti, ai citati e ai taciuti (che sanno di essere lo stesso nei miei pensieri).
V

domenica 2 marzo 2008

Incontrando Piazzolla, tra pioggia e notte

Detesto Piazzolla, perché ogni volta che lo ascolto mi lascia una scia nell'animo deserta e secca - come dopo appena pianto. 
Ieri sera camminavo per le vie strette e buie di Cervo, le mani nelle tasche del cappotto e il collo chiuso nelle spalle contratte. Guardavo a terra, i ciottoli bagnati dall'umidità della notte, e il passo corto e svelto, e alla fine Nicola mi ha detto: "Cammini troppo veloce, scivolerai, che c'è bagnato", e intanto mi stava un passo indietro, ogni tanto si fermava e io, accelerando, voltavo la testa e abbassavo il mento sulla spalla per guardare dov'era rimasto dove fosse finito. Ma lui era lì, ad un paio di metri da me, dietro, quasi ridosso ad un qualche muro, e mi guardava. Uno sguardo vago e un po' sperso, ma bello. E la bellezza Nicola la teneva tutta contratta nelle mani affondate nei jeans, la bellezza lo percorreva in un'onda circolare e sfibrante, che se affrettavo il passo era per sfuggire a quell'onda quel moto caldo che nemmeno lui sapeva di emanare, come odore di pioggia dopo che ha smesso: la bellezza dei vent'anni, che si vergogna di se stessa o più spesso si ignora, dimentica e gloriosa nella sua sfacciataggine pudica. Non potevo nulla di fronte a quella bellezza che non era mia e in fondo nemmeno sua, che strisciava sul selciato e rasentava muri e colava giù dal cielo assieme alla nebbia fredda della notte. 
Poi abbiamo sentito una musica che usciva dal portone, da una finestra filtrata da tende scure, era Piazzolla che suonava, e Nicola non poteva sapere e io non sapevo come farglielo capire che detesto Piazzolla e quell'umidità di pianto che mi lascia nell'anima. Eppure mi sono fermata, appoggiandomi a lui in silenzio, e noi due al muro. In quell'istante di gambe finalmente ferme (più nessun bisogno di altrove, e con un nodo in gola che era spazi siderali di distanza tra noi e un senso di scottante emozione), la sua bellezza è diventata la mia, e anche la musica - senza parole nella cornice di quella notte umida e stranita - mia.
V