giovedì 20 dicembre 2007

Antigone, sangue vergine

"Per molti è un vantaggio l'irrequieta speranza, ma per molti è illusione di labili sogni: nell'uomo s'insinua, che nulla intuisce prima che il piede si bruci nel fuoco candente".
Così geme il Coro dell'Antigone che martedì, a teatro, ha scandito con lenta cadenza la tragedia dei Labdacidi. E io mi sono rapidamente lasciata precipitare nello sfondo nero, attorcigliata in ruvidi pepli e a tratti abbagliata dalle fredde luci secche, monotone. Suonava un suono lento, lugubre, che accompagnava i piedi scalzi dei personaggi con un sottofondo di leggero fruscio. Alessandro accanto a me riusciva a farmi ridere quando, da dietro, qualcuno russava nei lunghi silenzi. Soffocavo le risate nel suo braccio largo, poi ritornavo con gli occhi al palco, e Antigone convulsamente proclamava: "Io sono fatta per condividere l'amore, non l'odio". L'ansia in quella sua voce subito mi quietava, fermando le risate. Un misto affascinante, risate e tragedia.
I caratteri tagliati con l'accetta sono la costante delle tragedie: se si eccettua Creonte - che troppo tardi riesce a capire, ma non ad arginare il corso ormai ferale del destino - i personaggi sono lì, monolitici, fermi, imprigionati. Per me, che nelle settimane scorse l'irrequieta speranza era il tema dominante delle mie ore di svago, i labili sogni sono troppo presto diventati illusione, e il destino oggi mi insegna ad avere sogni più misurati. Tutta la realtà che ho vissuto è stata buona come cibo letterario, ma ha nutrito poco. Ora ho un altro sogno, di "sangue e carne", come ha detto Alessandro.
Le sue mani nei capelli, quelle di Alessandro, strappano un sì con un movimento opposto e simmetrico a quelle di Ismene che trattiene l'irrequieta testa della sorella. Antigone fugge verso la sua morte eroica, virginale letto che condivide col suo promesso sposo Emone, suicida per coerenza ed impotenza. Creonte grida, agitando le braccia. Ma lui, povero spaventapasseri ormai annichilito dalle sventure, nulla può fare contro questo gran fiume di sangue che gli scorre tutt'attorno. E' come la vita, quel sangue. Scorre e s'insinua dove non sai, dove a volte nemmeno vorresti, e indica la direzione - quella giusta in cui guardare.
Senza passione ma per puntiglio, nei miei post di qualche tempo fa mi ostinavo a raccontare di qualcosa che non c'era: certo ci sono stati baci, carezze, sguardi. Scambi di sensazioni e immagini. Mani che si toccano e labbra. C'è stato un fantasticare che mi ha portato in direzione ostinata e contraria, direbbe De André. Contraria alla direzione indicata dal sangue e dalla carne di cui parlava Alessandro martedì. Anch'io, come gli eroi delle tragedie greche, ho peccato di ybris. La mia superbia è stata quella di voler vivere una vita a immagine della fantasia; una vita poetica, una vita che è racconto, post, un frammento di statua o quadro o sogno. Ho messo i bastoni tra le ruote a ciò che naturalmente doveva essere.
E' faticoso vivere volendo fare della vita una "bella copia", un tema riuscito senza cancellature, esitazioni o errori. Senza ripensamenti. E' come voler pitturare senza sporcarsi le mani, o la punta del naso. Forse è possibile, ma troppa energia si perde nel gesto perfetto, nell'ansia della precisione, nell'esaltazione maniacale del controllo. La direzione indicata dal sangue vergine di Antigone è la via del più spontaneo flusso vitale, dell'abbandono agli dèi, dell'accettazione. E della serena accoglienza.
V

lunedì 17 dicembre 2007

Luccio, una rosa al giorno

Ogni domenica, per anni, Piera e Luccio (in realtà Carlo, divenuto Carluccio da cui Luccio) sono venuti a casa nostra per passare il pomeriggio insieme. Io ero in quell'età di mezzo che mi faceva odiare la mia pelle: portavo spessi occhiali da vista, l'apparecchio per i denti e mi sentivo un mostro. Probabile che lo fossi, anche (ma non ditelo a mia madre). Luccio era un bell'uomo, più affascinante che bello, alto, il naso curvo e appuntito, la parlata milanese e i lunghi capelli brizzolati. In inverno portava un trench in pelle nera, sciarpa bianca e jeans scuri da ragazzino: avresti detto, a occhio, che aveva un harem di amanti attorno a sé. Avresti detto che la sua vita era eccitante e smodata, che il mestiere di architetto gli calzava come un guanto, e che - agli occhi di un'adolescente in crisi - Luccio fosse il simbolo di tutto ciò che è grande, di ciò che è al di là della staccionata.
In realtà, di amanti non ne aveva mai più di una per volta (storie solitamente lunghissime, una sorta di ostentata bigamia), il lavoro stava iniziando a scarseggiare, e beveva. Forte. Una bottiglia di whisky in un pomeriggio, per intenderci. Quando se ne andavano, vedevo gli sguardi tra i miei genitori: erano sguardi di ansia, e una ruga verticale gli attraversava la fronte. Chi se ne frega del whisky, diceva la ruga (gliene compravano ogni settimana uno nuovo, di lusso, e solo per lui). Luccio è l'amico della maturità, Luccio e Piera sono la coppia delle crociere, del progetto della casa nuova, dei battesimi, delle telefonate di notte, delle feste patronali di paese, delle scampagnate. Ma Luccio si secca una bottiglia in un pomeriggio, e poi se ne tornano a casa. Un bacio al mostriciattolo occhialuto di casa, e si mettono in macchina. Quanto potrà andare avanti, in questo modo?
Ogni domenica Luccio si sedeva al tavolo quadrato del tinello (questa casa l'hanno progettata loro, questi archi del salone, le scale sospese e curve, il marmo ovunque e la commistione di stili), col bicchiere e la bottiglia davanti, e mentre mamma e Piera parlavano di lavoro, di come procedeva la ristrutturazione dell'albergo, delle figlie e dei vecchi di famiglia, Luccio mi parlava di Tagore, mi citava versi e poesie scrollando i suoi lunghi capelli, mi metteva una mano sul braccio e mi diceva: "Prometti che lo leggerai!", e io promettevo. D'altra parte la maggior parte dei libri che leggevo me li regalavano loro, a botte di venti, trenta per volta. Erano ricchi, e terribilmente infelici.
Mia madre ha sempre detto che Piera e Luccio, sulla carta, erano perfetti insieme: entrambi architetti, estrosi e anticonvenzionali, belli, innamorati e pieni di idee. Erano loro, erano "la" coppia, che mai avrei potuto pensarli scissi. Eppure, continua mia madre, mai ha visto una coppia peggio assortita di loro: hanno passato la vita a farsi lo sgambetto, a mandarsi a cagare, a fare e subire le corna, e poi tornare sui propri passi. Si sono scontrati, urlati, amati e perdonati; si sono lanciati oggetti contro e insieme hanno costruito palazzi; hanno fatto due figlie, e mai una volta che si siano trovati d'accordo sul come educarle... Si sono ignorati per anni. A tratti, guardarli mi faceva stare male per la violenza e l'ostinata precisione con cui quei due - pur amandosi - si erano rovinati la vita.
Un giorno, dopo l'ennesimo tradimento sbandierato, Piera ha dato fondo a tutta la sua incurante pazienza. Ha sbraitato, ha distrutto i piatti della cucina, poi - l'ha cacciato di casa. Luccio, dopo questo fatto, ha iniziato a venire da noi sempre più spesso: confabulava coi miei, bevendo a sorsi piccoli e vicini. Le ultime volte mi guardava e mi diceva: "Diventi sempre più bella, come quelle là...", e indicava qualche ragazza in televisione. Rideva perché vedeva che arrossivo, e che il complimento mi faceva piacere. Lui, invece, diventava sempre più ascetico, whisky a parte: era appena entrato nella sua fase mistica, gli prestavo i libri di S. Agostino e Pascal, voleva leggere la Summa Theologiae ed ammattiva per la Commedia di Dante. Si era messo in testa che avrebbe di nuovo conquistato la sua Piera, che l'avrebbe nuovamente fatta innamorare di sé, come i primi temi, quando si erano conosciuti al Politecnico di Milano. Le avrebbe fatto recapitare a casa tutti i giorni, ogni giorno che dio avesse mandato in Terra, una rosa rossa con il biglietto "Un uomo che ti ama, sempre"; tutti i santissimi giorni dell'anno. Fino alla morte.
Quattro anni fa, intorno al Natale, Luccio era in macchina che vagava senza meta (infelice, io credo. Senza speranza, senza futuro, e coi sogni ormai a brandelli, lasciati per troppo tempo a macerare nel whisky). Certo, Piera l'aveva perdonato, avevano ripreso ad abitare insieme e lui finalmente aveva detto addio alle amanti. In compenso studiava con ossessiva monotonia i testi sacri, aggiungendo mania a dipendenza. Ogni giorno, puntuale, per Piera arrivava la rosa rossa dal gambo lungo, e per Luccio era come un voto, un rintocco che rammemora, l'ultimo tentativo di sentirsi qualcuno. Finché quella vigilia di Natale un malore, qualcosa, gli aveva fatto perdere il controllo dell'auto, ed era morto prima ancora di schiantarsi contro il muro.
Le rose continuarono ad arrivare per qualche giorno, poi smisero, svanendo come la scia di un motoscafo, come una nuvola, come un'immagine luminosa sulla retina: un'ombra che resta lì, ferma, ancora per un istante, un momento solo, e infine evapora, leggera, lasciando gocce di sudore sulla pelle. O lacrime, forse.
V

mercoledì 12 dicembre 2007

Tra Pessoa e Decollatura

Mi ritrovo in uno stato di carenza assoluta, che neanche le parole possono servire a qualcosa. Eppure scrivo: come una missione, come un disperato. Sono un soldato senza patria e senza uniforme, che lotta contro nessun nemico e nessun falò la sera mi riscalda accanto ad altri uomini. C'è un'escrescenza di pelle, un al di là e un di fuori che mi spaccano il cuore.
Stamattina leggevo Pessoa ad alta voce; tentavo di saggiare la poeticità del portoghese sulla lingua: e questo mi ha dato probabilmente il colpo di grazia. Dopo settimane di seduzione e altrove, il senso è venuto a mancare. Pace all'anima sua. Mi sarei accontentata di raccontare della mia antenata, la Nobildonna Zenaide Trigi Pellegrino, sepolta a Decollatura nella cappella dei Conti Perna. Ci ho provato, ma la storia mi è rimasta agganciata, singhiozzante, tra le dita - e non c'è stato verso di convincerla a venire fuori. Ho provato allora a scrivere di Pessoa, della sua follia, dei suoi eteronimi, del suo straziante angelico poetare. Ma era un'impresa troppo ardua per la mia gola secca. Eppure mi sono sforzata, mi sono fatta violenza. Senza risultato, ed è giusto così.
Oggi è un giorno senza parole, che di parole ne spende più di quanto meriti. E' uno di quei giorni in cui voler dire qualcosa è una necessità ma, come negli incubi, neanche il più disarticolato dei suoni può essere detto. E allora, cautamente, appoggio e aggancio una parola dietro l'altra, e solo alla fine mi renderò conto dell'effetto che fa. Solo alla fine guarderò il quadro d'insieme e dirò: che stronzata!
Perché le parole, quando il silenzio?
Zenaide era una donna bellissima, nobile, e povera, morta di parto nel 1889.
Pessoa era un visionario, un profeta, vaso di pandora dei dolori del mondo: di quelli dicibili e di quelli indicibili.
E io naufrago, lentamente.
V

lunedì 10 dicembre 2007

Ma mère m'a dit (la Notte e il Fascino)

Mia madre, figlia sessantaquattrenne del proibizionismo sessuale, s'è detta preoccupata dei miei rientri all'alba durante il fine settimana. Troppe volte, troppo tardi. O troppo presto, a seconda dalla prospettiva da cui si guarda il giorno: se dalla fine - o dall'inizio. Durante il fine settimana la notte è il mio giorno, trapunto di molti soli; io lo abito con disinvoltura, lo indosso, e nulla mi piace altrettanto che sentirmi avvolta rannicchiata nella notte. Quel buio; quello stop della mente. Sentirmi me stessa senza il dovere di esserlo; nelle mie maschere la mia essenza.
Sabato qualcosa (un'emozione, forse) mi ha preso alla gola, mordendo con avidità. Mi ha gettata a terra. Ho adorato da subito quella sensazione di violenza e forza, quel brutale piegarmi le braccia dietro la schiena e vincermi. Mi ha fatto sentire gli occhi liquidi, e caldi; persi, immersi nel desiderio. Ciò che immagino è irripetibile. Sono lapilli di carenza e fuoco che nelle mie notti tengo troppo moderatamente a freno, ma che deflagrano infine di giorno - nelle parole, purtroppo. Solo nelle parole. Che, di volta in volta, bastano sempre meno, appagano sempre meno e, al pari esatto di un erotomane, pretendono di più, svelano sempre di più, e incalzano. Sono la mia personalissima fonte di dipendenza.
Riflettevo: ciò che rende attraente la Bestia non è, come stupidamente ci vuol far credere l'autore, la dolcezza che infine riesce a suscitare in Belle un sentimento di amore, ma dovrebbe essere proprio la sua forza, la sua rudezza, il potere che deriva dalla sua mostruosa imponenza. In questo c'è del fascino (e d'altra parte nel significato stesso di fascino c'è la notte, il mistero, la malia e l'accerchiamento, il piegarsi della volontà ad un potere oscuro; il fascino è Anatolij Kuragin), non in quella specie di goffo peluche che lancia palle di neve e mangia la zuppa col cucchiaio... patetico.
Due volte la stessa carezza, è vero, non è la stessa cosa. Ma qualcos'altro può esserci al suo posto. Qualcosa di più coinvolgente, e di meno facilmente definibile. Appoggiata alla parete stavo parlando con un'amica, finché lui, all'improvviso ma con decisione, si è quasi lanciato su di me prendendomi la spalla, spingendomi quasi con tutto il corpo contro il mio che, avvicinando tanto i suoi occhi ai miei e le sue labbra, ho sentito le pupille dilatarsi di stupore e bellezza, ho posato la testa al muro in stato di totale inerme abbandono mentre lui mi parlava e mi diceva di raggiungerlo alla consolle dove stava mettendo i dischi. Non importa quello che è successo dopo. L'ho raggiunto, certo. Non subito, non di slancio, ma girandoci intorno, temporeggiando, irretendo. E' stata una danza.
Parlavo di legacci, qualche post fa. Ecco, quei legacci si sono infittiti, tagliano la pelle e penetrano la carne. Sono ormai dentro di me.
E' un errore credere che io ami. Non amo - non ancora, e nemmeno quasi. Ma di notte mi accade sempre più spesso di respirare, assieme alla fredda aria di mare, fascino e buio e stelle e un senso da omphalos, da ombelico del mondo. Mia madre non sa quale sacro sentimento di onnipotenza anima le mie notti, e le sue immagini sono immorali grovigli di azioni impure. Le mie, di immagini, sono ben più oscure, e ben più roventi; ma le consegno talvolta alle parole e, più spesso, al silenzio ermetico della mia testa. Tric trac: le rotelle girano, macinano fantasie, disegnano scenari e mondi e sogni. Null'altro che il fascino più torbido, accompagnato dalla realtà più casta.
... Ma solo in attesa che la realtà riesca - finalmente, ed infine - a cogliermi di soppiatto, ululando e spazzando la mia mia terra con potenza di tormenta, piegando reticenze e vanità, sospingedomi come fa il vento con le anime dantesche del secondo girone dell'Inferno. Insomma, ubriacandomi con una potenza che finora ho solo pensato, ma - mai - vissuto.
V

mercoledì 5 dicembre 2007

L'usabilità e l'anima delle cose

Parlando di usabilità si intende il grado di facilità e di soddisfazione con cui si compie l'interazione tra l'uomo e l'oggetto. Nel blog Bottom-up designers, si mostra ad esempio la scarsa usabilità di un pelapatate, e c'è qualcosa di fascinoso in tutto questo. Ed è l'idea che, delle centinaia di volte che mi sono data della stupida per non aver saputo fare benzina alle pompe automatiche, o per aver distrutto una confezione invece di aprirla, o non aver capito nulla dei labirintici cartelli di un ospedale o di un museo, non ero io ad essere stupida - ma loro (cartelli, confezioni e distributori) ad essere user-unfriendly. In un certo senso... In un certo senso è così.
Eppure c'è qualcosa di umano troppo umano nel modo in cui le cose interagiscono con noi. Per dire: io sono convinta di essere realmente stupida quando mi arrovello un quarto d'ora buono per fare benzina; le guance, ogni volta, mi vanno letteralmente a fuoco. Dalla vergogna. Mi vergogno degli oggetti. Mi vergogno di non capirli. Mi vergogno di non essere abbastanza abile per loro. In fondo, gli oggetti immagino siano come le scope animate dell'Apprendista Stregone: un Topolino volenteroso e solerte, ma soverchiato dalle cose attorno a lui, animate di vita, circondate di mistero, e che vivono - letteralmente: vivono.
Conosco persone che hanno una straordinaria familiarità con il mondo degli oggetti. E' una forma di empatia, la loro, di intimità e di agio nel trattare l'altro da sé come se fosse un'estensione del corpo, una comoda propaggine. Merleau-Ponty disse qualcosa di molto poetico (ma anche di molto concettuale) quando affermò che l'uomo tiene a cerchio attorno a sé tutte le cose; in questo modo le cose diventano un prolungamento dell'uomo, si fanno della sua carne, sono intessute della sua stoffa.
Ma io, per accettare quella carne, ho bisogno quotidianamente del mio farmaco anti-rigetto, e quella stoffa mi fa allergia. Le cose sono cose - e lo dico come si disse Stat rosa pristina nomine, nomina nuda tenemus -, e a volte m'incantano altre m'incatenano. Ma è proprio in questo "incatenarmi" che le cose cessano di essere mere cose, e diventano qualcos'altro: il nemico (quando mi ostacolano o mi fanno avvampare di vergogna), il compagno (quando mi indirizzano verso un piacere) o una scoperta (quando riescono ad essere belle). E allora non sono più cose. Sono la strada dell'anima, la finestra sul mondo che apre all'anima ciò che non è anima.
Chi ha familiarità con le cose, le tratta, appunto, da cose. Esse sono il dato, l'essere scontato che è funzionale all'uomo. Ma chi si fa guardare dalle cose, incastrare incantare incatenare da esse, va oltre la loro semplice presenza, la loro scontata funzionalità, la loro immediata praticità. Proietta l'anima fuori da sé, e abbraccia, emana, comprende. E sono convinta che se le cose non avessero una loro intrinseca problematicità di fondo, non fossero difficili, irrazionali e spesso irritanti, non le guarderemmo nemmeno, non le scaglieremmo per terra in un eccesso di rabbia, non le rivestiremmo di significati, e non diventerebbero per noi quasi animate...
V

lunedì 3 dicembre 2007

Un'altra volta la stessa carezza

I fatti sono evoluti con una rapidità incontrollabile. In una sera ho avuto tutto: l'incontro-evento fulminante, l'idea e la carne, le mani. Non so come sia accaduto, perché non avrei avuto il coraggio di farlo accadere; eppure, mentre c'ero, era solo una naturale estensione, fatta di pelle e respiro, dei miei post. Un frammento di vita più pensata che vissuta. Lui teneva gli occhi chiusi, e il riverbero della luce dei lampioni disegnava curve di stanchezza sul viso. Io lo guardavo, e seguivo con un dito il suo profilo; intanto mi dovevo dire che, sì, davvero ero lì con lui, e che l'aveva voluto lui e che lui era abbandonato tra le mie mani ad occhi chiusi. E che c'ero io, lì. Davvero.
Ma questa è già la fine del racconto. Cominciamo dal principio.
Vedendomi, quella sera, si è avvicinato, mi ha baciato le guance per la prima volta, e si è fermato finalmente accanto a me. Finalmente, per la prima volta, non è passato oltre dopo avermi incrociato; ma si è fermato, stabile, non esattamente di fronte a me, non di fianco ma di tre quarti, il viso rivolto avanti e il corpo a creare una specie di abbraccio immobile. Abbiamo iniziato a chiacchierare e fin dall'inizio è stata come l'apertura di una diga, una valanga di racconti, sensazioni, fatti e ricordi, di confidenze e di sciocchezze. Abbiamo trascorso un'eternità in mezzo al locale a parlare l'uno addosso all'altro, e a sussurrarci nelle orecchie per soverchiare i decibel della musica alta e per stare vicini annusare la sua pelle. Le parole che ci dicevamo erano in realtà un'accattivante rete di pretesti, perché nel giro di poche battute ci siamo ritrovati a dirci come ci saremmo contattati in futuro. Lui la prende alla lontana: "Potresti telefonare in ufficio e lasciare il tuo numero. Quando lavoro faccio filtrare le chiamate, ma se lasci il numero ti richiamo io". Arriccio il naso, non so, forse non mi piace molto l'idea, gli rispondo. Allora lui propone: "Prendi l'elenco del telefono, e cerchi il mio nome..." Rido come se fosse un'idea impraticabile, come se non possedessi alcun elenco telefonico. Ma lui si corregge subito: "E' meglio se prendiamo una scorciatoia", dice infine. "Ti lascio il mio numero di cellulare, così non ci sono filtri", e gli mostro tutta la mia più recitata sorpresa... Mi dice: "Aspetta qui", va in cucina, ritorna poco dopo e mi lascia tra le mani un cartoncino su cui ha scritto il nome e il numero. Mi allontano, e fremo.
C'è qualcosa nell'aria, una nascosta sensualità che sento fluire dalle viscere, che mi pervade e mi eccede. Niente mi sembra impossibile o incredibile, tutto è come deve essere. E' il beethoveniano das muss sein!, il destino che bussa alla porta, una necessità impellente categorica che si fa avanti con martellante ineluttabilità. La sento nella schiena, che lui più e più volte sfiora abbraccia accarezza, come per caso. Tende a chiudermi negli angoli, a bloccarmi la strada, ad allungare un braccio per sbarrare l'uscita: nessuno di questi gesti ha l'aria di essere deciso né di essere finalizzato a me. Sembrano gesti casuali, ed è durante una di queste trappole (lui mi impedisce di scendere dallo sgabello su cui sono, e mi ritrovo incastrata tra lui e il muro) che gli dico: "Un po' di settimane fa ti ho visto alla consolle che mettevi dischi in giacca e cravatta... Avevi una cuffia sull'orecchio, e tenevi la testa piegata sulla spalla. Quella visione mi ha emozionato". E' un punto di non ritorno, le carte sono date.
La mano vincente è quella di un uomo che alle 5 del mattino posa la sua guancia sulla mia accarezzandomi il collo. Tiene gli occhi chiusi, e il riverbero dei lampioni disegna curve di stanchezza. La sua bocca è tirata, taglia una ferita in mezzo al viso, e lo stupore di averlo qui mi fa toccare con dita leggere ogni suo tratto. Lui è immobile, ogni tanto dice una frase breve, e sorride; mi tiene le mani, e non c'è fretta, non c'è nemmeno una domanda e nemmeno una risposta. In questo c'è solo il presente, un attimo lungo ore e lungo carezze che non si danno l'assillo del domani, e nemmeno del dopo. E' difficile da spiegare e pure da capire, ma per me non c'è futuro in quella bellezza che ho bevuto. Come se il presente fosse già passato, questa notte ha realizzato tutte le sue potenzialità. Baciare quelle labbra - morderle, esattamente come avevo sognato di fare - mi ha del tutto appagato, lasciandomi quieta e sfamata. Lui, però, ha gettato un seme di futuro, uno piccolo, e problematico. Mi ha detto: "Scrivimi", e io: "Cosa vuoi che ti scriva?", "Che mi desideri..." Io lo ascolto, guardo i suoi occhi socchiusi e gli domando: "Davvero credi questo?", "Certo. Cos'altro? Tu non sei innamorata di me. Mi vuoi. E io sono qui". "Non vorresti esserci?", "L'ho scelto, ed è una cosa rara. Ma ci stiamo infilando in un casino..." Mi accendo una sigaretta e butto fuori il fumo prima di dire: "Perché? Tu vedi una progettualità in questo 'casino'?", ma non risponde subito. Infine dice: "Sì". Poi, in un momento di inattesa loquacità, aggiunge: "Vorrei portati fuori... Vorrei farti vedere i posti che mi piacciono, dove mi diverto lontano da qui, dove riesco a lasciarmi andare... E tu cosa vuoi?". Niente, sarebbe la risposta. Nient'altro che questo, e ora. Ma mi sembra una cosa inaccettabile da dirsi, una saracinesca abbassata sulle dita di una persona. Do una riposta simmetrica alla sua: "Vederti... ogni tanto", e mi chiudo nel mio silenzio fatto di lunghe boccate di fumo.
La poesia accade. Non è un fiore di serra, coltivato e alimentato a concime; è espressione della creativa fecondità della natura. La poesia ha reso quelle carezze reali lungo l'arco di una notte una rosa spontanea che stupisce per il suo odore caldo di petali maturati al sole. Un'altra volta la stessa carezza sarebbe un'altra cosa. Sarebbe l'appendice prosaica di un sogno nato e vegliato tra le pagine di un libro.
V

sabato 1 dicembre 2007

La tenerezza e la bellezza

Da una settimana, ormai, sono soggiogata dall'inconsapevole dolcezza di due occhi timidi. Se la loro timidezza sia immaginata o reale, non saprei dire. Ma, come nel caso di Carlo, anche questa volta - più che l'evento - ciò che mi scuote è la bellezza di un'idea, tutta concentrata nella bellezza di un corpo: l'idea che si fa carne.
Non mi piace la bellezza negli uomini. Gli uomini davvero belli che ho conosciuto nella mia vita hanno sempre avuto un che di innaturale: sono uomini che, per la maggior parte, guarda sempre in alto, senza degnare di uno sguardo noi poveri esseri umani inferiori al metro e ottanta - e sì che la compagnia è grande. Guardare un simile personaggio è arido e deludente. Benché spesso siano uomini statuari, il paragone con le statue è improprio: la statua infatti sa porsi puramente alla vista emergendo nella sua nascente tridimensionalità, si lascia guardare velando e svelandosi, e creando uno spazio prospettico magico e intenso che lega tutti - spettacolo e spettatori - in un unico evento. Un uomo bello, al contrario, si ritrae alla vista degli altri pur vivendo per essere guardato. Ma il suo lasciarsi guardare è infecondo come il vecchio cimelio dei nonni tenuto chiuso nella vetrinetta del salotto buono, quello che nessuno abita mai. E' triste, appunto.
Questo ragazzo che da una settimana vedo è bello: niente di più che bello, ma anche niente di meno. Di un'altezza strepitosa, magro e spontaneamente elegante di modi, è giovane, è timido, è sensuale.
Ieri sono arrivata al locale, ho posato borsa e cappotto, e lui è passato accanto a me con una pila di bicchieri puliti in mano. Era serio. Bocca carnosa ma non stucchevole. Capelli spettinati, occhi accigliati e naso piccolino, corto. Ne stavo ammirando la perfezione quando lui, vedendomi, si ferma un istante, schiarisce tutto (un'esplosione di denti bianchi, occhi luminosi e una rete di brevissime rughe attorno alla bocca) e si ferma per salutarmi, darmi un bacio sulla guancia, mentre io gli tengo il braccio. E' una consistenza setosa di muscoli e carne, di calore e sangue. Il frammento di pensiero che rimane incastrato nei miei occhi, mentre gli tocco il braccio, mentre lui mi bacia, mentre i bicchieri chi se li ricorda più (e la Carletta commenta: "Era inutile che io gli dicessi anche solo 'ciao'!"), è che questo ragazzo - più giovane di me - non ha capito di possedere una bellezza franca e pulita che emoziona. E' ignaro, perciò la sua bellezza trasuda qualcosa che gli altri non sanno nemmeno di avere: la tenerezza. Non è una tenerezza di bambino o cucciolo (ho conosciuto ragazzi belli che già a 16 anni riuscivano ad essere fastidiosamente vuoti), ma è il disarmante potere che nasce dalla profondità, dalla tridimensionalità, dal mistero - e che non è mero fascino, non si identifica con una camicia nera attillata né in un certo modo di tenere la sigaretta. E' tutto questo, ed è altro che gli gira intorno, dietro, al di là, si intreccia si sovrappone e si incastra come una gemma che sorge dal suo stelo. E' come piega la testa quando parla; è lo sguardo di lato che non osa fissare; è la spontaneità di una timidezza attraente e un poco impacciata.
La tenerezza rende preziosa la sua bellezza.
In un certo senso, lui è rassicurante come un paesaggio di Jane Austen, ma vivifica quell'asessuata atmosfera british con un calore e una sensualità vibranti che lo rendono desiderabile oltre che bello e tenero. Racchiudo tutto il desiderio che lui mi evoca in una sola, ultima immagine: mentre ero in un angolo a parlare con qualche amico, mi volto verso di lui e, tra decine di teste, intravedo, dietro il bancone, il suo collo lasciato scoperto dalla camicia. Una pelle chiara, una linea limpida e netta che crea una curva di piacere fisico, e là - nell'incavo delle clavicole - una piccola collana brilla di luce ammiccante, canto delle sirene che mi ha intrappolato. Un sorriso sfuocato sta ai margini di questa visione, splendida cornice di un quadro d'autore.
V